Quanto contano le elezioni comunali in economia? Molto. Anzi, zero. Follow the money

Marco Valerio Lo Prete
Che l’economia non sia una “scienza esatta” diventa tanto più evidente leggendo gli studi sul “ciclo elettorale”, cioè quel tipo di analisi nate negli Stati Uniti negli anni 70 con l’obiettivo di analizzare l’influenza delle elezioni sulla politica monetaria e sulla politica fiscale. Due studi accademici, e alcuni dati, sul caso italiano

Oggi, come ogni lunedì, è andata in onda "Oikonomia", la mia rubrica su Radio Radicale. Qui potete ascoltare l'audio, di seguito invece il testo con i link.

 

Che l’economia non sia una “scienza esatta” diventa tanto più evidente leggendo gli studi sul “ciclo elettorale”, cioè quel tipo di analisi nate negli Stati Uniti negli anni 70 con l’obiettivo di analizzare l’influenza delle elezioni sulla politica monetaria e sulla politica fiscale. Alla luce del ballottaggio che in alcune città si è tenuto ieri, vorrei riproporvi sinteticamente due studi di questo tipo, riferiti alla realtà italiana e apparentemente contraddittori tra loro, e poi concludere con alcuni numeri che invece illuminano chiaramente una tendenza di fondo del governo economico dei nostri centri urbani.

 

Nel 2015, gli economisti italiani di Harvard Alberto Alesina e Matteo Paradisi, in uno studio in lingua inglese presero a riferimento l’introduzione nel 2011 dell’Imu, cioè l’imposta municipale propria, per dimostrare l’esistenza di “cicli politici di bilancio”. Gli autori dissero di aver trovato “prove significative” del fatto che i comuni sceglievano di “abbassare le aliquote all’avvicinarsi delle elezioni”. “Si osserva tale ciclo elettorale soltanto per i comuni più piccoli, lì dove l’Imu aveva la possibilità di essere il singolo tema più importante per il governo locale. Invece le città con un forte disavanzo dei conti pubblici che si avvicinano alle elezioni non abbassano le aliquote – continuano Alesina e Paradisi – probabilmente perché avvertono i vincoli stringenti delle regole di bilancio”. All’interno di questa macrotendenza, gli economisti rilevarono però che a livello comunale la sinistra tende a imporre imposte più alte della destra: “Esistono tre tipi di governo delle città italiane: quelli indipendenti, con gruppi politici locali non legati ai partiti nazionali, i partiti di centro-sinistra e quelli di centro-destra. Sia i governi di sinistra sia quelli di destra tendono a fissare aliquote dell’imposta immobiliare più alte rispetto ai partiti indipendenti, e i partiti di sinistra tendono a fissare aliquote più alte che i partiti di destra. Infatti una percentuale maggiore dei comuni governati dalla sinistra, ovvero il 35 per cento degli stessi ha optato per un’aliquota dell’Imu sulla prima casa maggiore di quella standard, mentre solo il 27,6 per cento dei comuni governati dalla destra lo ha fatto”.


E’ sempre studiando i comuni italiani che quest’anno due ricercatori italiani, Roberto Basile (economista della Seconda Università di Napoli) e Valerio Filoso (economista dell’Università Federico II), sono arrivati a conclusioni apparentemente diverse da Alesina e Paradisi. I due autori del paper intitolato “The market value of political partisanship” hanno ritenuto di usare come indicatore della qualità della vita cittadina il prezzo delle case. L’ipotesi sottostante è la seguente: “se una città è amministrata bene, la migliore offerta di servizi, sicurezza, vita culturale, finanziate tramite un giusto equilibrio fiscale faranno aumentare il valore degli immobili. Più persone vorranno andare a vivere sotto un buon governo, perché gli amministratori pubblici rispondono meglio alle preferenze dei cittadini”. Ecco la conclusione, sintetizzata con le parole di una ricercatrice di Scienza politica, Rosamaria Bitetti: “Nel loro studio, gli autori guardano a un database che raccoglie i risultati delle elezioni municipali fra il 2003 e il 2011, e i prezzi immobiliari differenziati per tipologia d’uso e localizzazione. Analizzandoli con un metodo di regressione discontinua, non trovano nessuna evidenza statisticamente significativa di una differenza sistematica: se il prezzo delle case riflette la migliore qualità dell’amministrazione locale, non c’è differenza fra destra e sinistra. Una delle possibili spiegazioni è quella che, a livello locale, le politiche di schieramenti opposti siano in realtà sostanzialmente identiche”.

 

Siamo quindi condannati all’impossibilità di misurare l’effetto delle politiche pubbliche sui nostri comuni? In realtà già una certa aneddotica su uso delle risorse pubbliche e gestione delle società municipalizzate, come quelle del trasporto locale o della pulizia dell’ambiente, ci consentirebbero di compiere scelte precise. Un altro criterio, quantitativamente più affidabile, è quello di seguire l’andamento della tassazione (cioè delle entrate del comune) e della spesa (cioè delle uscite).

 

Uno studio congiunto del Cer e di Confcommercio ha provato a farlo lo scorso anno. Li veniva evidenziato come “nel periodo 1998-2014, le imposte locali siano aumentate del 72,2 per cento, salendo fino al 6,6 per cento del pil e al 21,9 per cento delle imposte tributarie correnti. Particolarmente accentuato è stato l’aumento delle imposte dirette che, attraverso le addizionali regionali e comunali all’Irpef, costituiscono la vera componente dell’autonomia tributaria locale. Queste ultime sono cresciute del 155 per cento nell’intero quindicennio e del 20 per cento negli anni della recessione, cioè 2007-2014. A fine 2014, il 15 per cento dell’imposizione diretta era riconducibile alle Amministrazioni locali; nel 1998 questa quota era inferiore al 9 per cento e nel 2007 era ancora al di sotto del 13 per cento. L’aumento della pressione fiscale locale consegue – secondo lo studio citato – dal combinato disposto della riduzione dei trasferimenti ricevuti dallo Stato centrale e dall’aumento della spesa corrente. In particolare, fra il 2009 e il 2014, i trasferimenti sono diminuiti del 23,2 per cento, mentre la spesa corrente è diminuita solo dell’1,2 per cento. La rigidità della spesa corrente si è inoltre tradotta in una forte compressione della spesa in conto capitale, diminuita nel periodo del 39,1 per cento, a scapito delle prospettive di sviluppo futuro del paese”. Almeno la componente indiretta della tassazione, dallo scorso anno, avrebbe dovuto calare un po’ per la decisione del governo di eliminare l’imposizione fiscale sulla prima casa. I dati diranno presto se ciò è avvenuto, anche se seconde case e altre immobili continuano a essere gravati da un livello di tassazione sconosciuto prima del 2011.

 

Il Sole 24 Ore di domenica 5 giugno forniva altri dati che possono aiutare a valutare le amministrazioni politiche che furono, ovvero quelli sul debito. A Roma, per esempio, “sulla gestione commissariale pesano 8,8 miliardi di passivo finanziario ma nel frattempo il Comune, dopo essere ripartito da zero nel 2008, non è rimasto con le mani in mano, e si è rimesso a produrre debito: a fine 2015 il Campidoglio ha accumulato un indebitamento da 1,26 miliardi, con un’impennata del 47,6% sul 2011, e fra Comune e commissario il rosso di ogni cittadino romano è di 3.489,9 euro: quasi otto volte e mezzo il carico di ogni residente a Bologna dove invece il debito, già leggero cinque anni fa, si è ridotto del 34,6% rispetto al 2011.

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