Quando (e come) è nato lo Stato esattore fiscale di oggi

Marco Valerio Lo Prete
Alla radice dei "Panama Papers". Qui si ricostruisce, grazie al contributo di alcuni storici, come e quando lo Stato militare-fiscale si è infatti affermato in Europa.

    Le ultime due puntate di "Oikonomia", la mia rubrica settimanale su Radio Radicale, le ho dedicate alla nascita dello Stato fiscale ed esattore in Europa. Qui l'audio della prima puntata, qui quello della seconda. Di seguito il testo, con qualche link.

     

    Presto il governo Renzi pubblicherà nuove stime sulla crescita e sui conti pubblici per l’anno in corso, rivedendo al ribasso l’andamento del pil. Oggi, per evitare di inseguire la cronaca, vorrei tentare di ricostruire, grazie al contributo di alcuni storici, come e quando lo Stato militare-fiscale si è infatti affermato in Europa. Cioè quando si è iniziato a parlare di un gettito fiscale di una certa importanza, di debito pubblico, eccetera. E’ stato infatti questo uno dei grandi tornanti della nostra storia che può contribuire a spiegare la cosiddetta “grande divergenza”, non solo economica, con il resto del mondo.

     

    Lo scorso ottobre, in occasione della ripubblicazione di un suo importante lavoro in Italia, ho ricordato le tesi di Jean Baechler, accademico di Francia e professore emerito di Sociologia alla Sorbona. Baechler è tra quanti si sono cimentati con il tentativo di dare una spiegazione al “miracolo europeo”, inteso come processo di arricchimento e fioritura straordinari. Nel suo libro del 1971, intitolato “Le origini del capitalismo”, Baechler enfatizzò per primo i fattori “istituzionali” e non “economici” o “culturali” che erano dietro la nascita del sistema capitalistico, influenzando tutti i maggiori studiosi dopo di lui. In estrema sintesi, Baechler sostiene che “l’espansione del capitalismo ha la sua origine e la sua ragion d’essere nell’anarchia feudale”, adotta dunque un approccio istituzionale.

     

    Fino al 1600 circa, le zone urbane guidate dalle oligarchie mercantili costituirono le aree economicamente più avanzate in Europa, rispetto agli stati territoriali in formazione come Francia, Spagna, Inghilterra e monarchie dell’est del continente. La guerra e le politiche mercantilistiche furono due dei fattori che favorirono la transizione verso realtà stato-centriche, secondo la storica italiana Silvia Conca Messina che a questo passaggio ha appena dedicato un libro, “Profitti del potere”, pubblicato da Laterza. Alcuni storici hanno collocato infatti tra il 1550 e il 1650 una “rivoluzione militare”: perfezionamento delle armi da fuoco, architettura bastionata e potenziamento dei sistemi di difesa, estensione della conflittualità in campo navale, aumento del numero degli uomini in armi, creazione di una complessa logistica militare per rifornire le truppe. L’ascesa dei costi della guerra comportò di conseguenza un maggiore coinvolgimento della società e dei governi nella raccolta dei mezzi finanziari. 

     

    Allora però lo Stato era un’istituzione “incompiuta”, almeno rispetto all’oggi. Gli storici Richard Bonney e W.M. Ormrod hanno proposto un modello a stadi. Dopo il “tribute state” medievale, ci sono tre fasi che caratterizzerebbero l’età moderna. Quella dello Stato patrimoniale, o domain state, in cui il sovrano vive dei propri patrimoni personali e non c’è netta demarcazione tra patrimonio del re ed entrate pubbliche; poi viene il tax state, cioè lo Stato che si fonda in maniera prevalente sulla fiscalità, anche se conserva una serie di privilegi, esenzioni, disparità; infine arriviamo al “fiscal state” maturo, caratterizzato da centralizzazione, universalità, interazione dinamica fra spese, entrate e debito pubblico. Dopo il 1648, in generale, i redditi patrimoniali della corona non finanziano più una quota significativa delle spese statali, si è passati quindi definitivamente dallo stato patrimoniale al tax state. Imposte dirette e indirette costituiscono la gran parte delle entrate ordinarie dello stato. Soprattutto le prime possono essere riscosse all’inizio solamente grazie alla cooperazione delle élite locali, gli unici soggetti con informazioni adeguate su reddito e ricchezza dei cittadini, oltre che gli unici con sufficiente forza per portare a termine il loro compito. Si affermò così il sistema dell’appalto delle imposte. La gestione dei balzelli veniva affidata a società private che anticipavano al governo il gettito presunto, anche per un certo numero di anni. Erano i cosiddetti fermieri o arrendatori. Le imposte indirette (quindi gabelle e dazi doganali, accise sui beni di consumo, eccetera) furono uno dei tentativi dei monarchi per aggirare tutte le difficoltà politiche, legali e amministrative legate al fatto di doversi affidare ad élite locali, in mancanza di una struttura burocratica adeguata. Un altro modo per procacciarsi risorse finanziarie fu la vendita degli uffici pubblici: le cariche finanziarie, giudiziarie e amministrative di ogni livello erano cedute in cambio di denaro. Nel secolo e mezzo successivo al 1515, in Francia gli uffici venali passarono da 4.000 a 46.000, e il loro valore complessivo equivaleva, nel 1665, a tre anni di entrate ordinarie. Un sistema comunque oneroso e inefficiente in termini di gettito per lo stato centrale.

     

    Nonostante tutte le difficoltà, è indubbio che dalla metà del XVI secolo si assiste in Europa a una crescita generalizzata della tassazione nominale. Nel primo secolo e mezzo dell’età moderna, la leadership del gettito, convertito in argento e tramutato in medie ciquantennali, spettò a Spagna e Francia: “Tra il 1500-1549 e il 1600-1649, la prima moltiplicò i suoi proventi di oltre quattro volte, la seconda di sei –scrive la storica Conca Messina sintetizzando le ricerche più recenti di Karaman e Pamuk – Poi la Spagna avrebbe rovesciato la sua tendenza, con una decrescita che si sarebbe nuovamente invertita nella seconda metà del 700. Insieme alla capacità della Francia di mantenere il primato e di raccogliere ingenti risorse nel lungo periodo (crescendo di 12 volte fino al 1700), ciò che colpisce è la notevole ascesa delle entrate pubbliche in Inghilterra che, pur non raggiungendo la sua rivale, riuscì a moltiplicarle di 40 volte tra metà 500 e fine 700”. In cima alla classifica delle entrate annuali pro capite ci sono invece le Province Unite, cioè gli odierni Paesi Bassi: nella seconda metà del 700 qui si raccoglievano ancora 200 grammi di argento a testa, contro i 160 dell’Inghilterra, i 70 della Francia, i 50-60 della Spagna, poco più o meno di 40 in Prussia, Venezia e negli altri paesi. Al di là delle differenze fra i vari stati, su cui tornerò lunedi 4 aprile nella prossima puntata di Oikonomia, i dati pro capite confermano un aumento della tassazione in epoca moderna, anche tenendo conto della crescita demografica.

    Continuando a citare le ricerche della storica italiana Silvia Conca Messina, vorrei notare come la crescita della fiscalità statale abbia preso forme diverse fra alcuni grandi paesi, Spagna, Francia e Inghilterra in particolare.

     

    Tra il 1519 e il 1714, il sovrano spagnolo dominava, oltre ai territori iberici, i possedimenti coloniali in America, la Sicilia, la Sardegna, il regno di Napoli, parte della Lombardia e i Paesi Bassi (in tutto prima, poi in parte). Tanti confini da tutelare, tanti nemici da confrontare, tantissime spese militari cui fare fronte. La scorsa volta ho detto come tra il 1500 e il 1650 la Spagna abbia moltiplicato di quattro volte i suoi proventi fiscali. Aggiungo oggi che “il debito permanente della sola Castiglia – che sostenne il peso dell’impero e a metà 500 forniva quasi il 70% delle entrate reali – passò dai 2 milioni di ducati del 1500 a 150 nel 1650”; aumentava anche l’onere fiscale dei cittadini, “raggiungendo forse un livello del 10-12% del reddito”. La Corona delegò i poteri fiscali alle Cortes, che rappresentavano le oligarchie urbane l’aristocrazia. All’inizio questo sistema sembrò funzionare, e a questa sensazione contribuì l’afflusso di metalli preziosi americani. Eppure le sperequazione di questo sistema fiscale non tardò a manifestarsi: perché l’aristocrazia esattrice adottò “una crescente quantità di imposte che raggiungevano solo in parte il Tesoro reale” e perché “le autorità locali non facevano ricadere la grandissima parte del carico tributario su coloro che potevano pagare di più, bensì sui consumatori delle città (e dei villaggi) e sugli artigiani, principalmente nella forma delle accise sui beni di consumo di prima necessità (vino, olio, sale, carne)”. Non bastando ciò, i sovrani spagnoli presero ad affidarsi ai banchieri internazionali (specie genovesi) per le emissioni di titoli del debito pubblico: “Nel 1667, il debito di 183,9 milioni di ducati equivaleva a 14 volte le entrate annue del re in Castiglia, cioè 13 milioni, ma 9 milioni erano spesi ogni anno per pagare gli interessi”. Una razionalizzazione del sistema fiscale avvenne solo dopo la guerra di successione spagnola, che durò dal 1700 al 1713, terminò con la perdita di tutti i territori europei non iberici e l’ascesa al trono dei Borbone.

     

    Anche la Francia, dall’epoca di Francesco I, re dal 1515 al 1547, e fino alle guerre napoleoniche, fu coinvolta praticamente in tutti i conflitti europei. “Solo nel corso del Seicento, il numero di uomini in armi si moltiplicò di almeno 10 volte, mentre le spese per le fortificazioni, le flotte e gli armamenti passarono, tra il 1599 e il 1714, da 5,7 a 218 milioni di lire tornesi”. Ancora: “A metà Seicento, il servizio del debito assorbiva il 40% delle entrate ordinarie”. Aumentarono dunque radicalmente le spese militari, la pressione fiscale – che nel 1761, quando era in corso la guerra dei sette anni, arrivò al 12-13% del reddito nazionale – e il debito pubblico; ma anche in questo caso la sperequazione del nuovo Stato fiscale non tardò a manifestarsi. “Ancora nel 1780, quando ogni francese versava mediamente 23 lire d’imposta diretta, le aree di frontiera o di recente acquisizione contribuivano con una quota molto inferiore, mentre nella generalità di Parigi il peso pro capite era di 64. Due gruppi favoriti dal sistema erano poi la nobiltà e il clero, che, diversamente dal ‘terzo stato’, non pagavano la taglia, un’imposta diretta istituita nel 1439 che rappresentò un’entrata importante fino all’ultimo decennio del Seicento. Anche la nobiltà di toga, cioè il ceto dei proprietari di uffici, beneficiava di particolari vantaggi, poiché il possesso di una carica dava diritto spesso a esenzioni e a contributi in forma di salario al proprietario”. Così non fu un caso che il sentimento di oppressione fiscale si trasformò in uno dei fattori principali dietro la convocazione degli Stati generali e la rivoluzione del 1789, né che i cosiddetti “fermieri” furono tra i primi ghigliottinati.

     

    Meno travagliata fu la parabola dell’Inghilterra. Come scrive la storica Conca Messina nel suo libro, “paradossalmente, l’unica monarchia politicamente non ‘assolutista’ venne a disporre dell’apparato fiscale più centralizzato e uniforme dell’epoca, immune da esenzioni e gestito da migliaia di funzionari statali appositamente formati che eseguivano le decisioni d’un organo politico centrale come il Parlamento”. Consenso politico assicurato dal Parlamento e centralizzazioni e uniformità delle imposte; così i circa 5 milioni di abitanti dell’Inghilterra del XVI secolo sopportavano una pressione fiscale abbastanza leggera, non superiore al 2-3% del reddito nazionale. Dopodiché “le otto grandi guerre combattute dall’Inghilterra (e poi dal Regno Unito, costituito nel 1707) contro la Francia e i suoi alleati tra il 1689 e il 1815 sollecitarono un’espansione del bilancio statale”. Ma proiezione commerciale esterna, vitalità economica e demografica, oltre a dimestichezza con la finanza, impedirono crolli disastrosi.