Pier Carlo Padoan e Matteo Renzi (foto LaPresse)

Ecco la nostra verità sui tagli alla spesa

Redazione
Cosa sono i 25 miliardi di cui parla Renzi. Ci scrive il commissario alla Spending. Gutgeld: “Abbiamo tagliato 25 miliardi di spesa pubblica. Adesso non parlateci più di austerità”. 

Al direttore - Nella lettera apparsa il 19 marzo sulle colonne di questo giornale Veronica De Romanis sostiene che il governo ha fatto poco per la riduzione della spesa rispetto ad altri paesi che crescono molto di più, proprio grazie alla loro rigorosa adesione alla cosiddetta austerità. E’ davvero così? Partiamo dai numeri. De Romanis cita come modello di riduzione della spesa la Gran Bretagna.  Non è l’unica a farlo. Del resto, sono proprio gli inglesi che hanno inventato il termine “spending review”. Sarebbe interessante fare un’analisi comparativa approfondita, ma per vincoli di spazio mi limito a un dato. I pre-consuntivi della spesa pubblica del 2015 rilasciati qualche giorno fa certificano che la spesa corrente l’anno scorso era quasi 12 miliardi di euro più bassa che nel 2014 (749,6 miliardi contro 761,5 miliardi, classificando gli 80 euro per quel che sono, una riduzione di tasse). Nell’analogo periodo, la spesa pubblica corrente della Gran Bretagna è salita di 8 miliardi di sterline (da 673,3 a 681,2 miliardi). In altre parole, con la spending review all’inglese avremmo dovuto cancellare nel 2015 gli 80 euro; non avremmo potuto stanziare un euro per la riduzione dell’Irap, per la decontribuzione dei nuovi contratti a tempo indeterminato, e per finanziare maggiori investimenti pubblici dei comuni, nelle scuole e nelle infrastrutture. E dopo tutte queste rinunce comunque non avremmo potuto rispettare l’obiettivo della riduzione del deficit al 2,6 per cento l’anno scorso, il valore più basso da quasi un decennio.


Siccome De Romanis puntualizza la “differenza tra la parte di spesa pubblica realmente tagliata e quella semplicemente riqualificata”, consegno agli atti una dichiarazione di colpevolezza. La riduzione di 25 miliardi di capitoli di spesa, assieme alle misure contro l’evasione fiscale, è servita non solo per ridurre le tasse (quasi 29 miliardi nel 2016) e per aumentare gli investimenti pubblici (oltre 6 miliardi consuntivati in più nel 2015 rispetto al 2014). Ma anche per finanziare alcune spese correnti. Approfitto tuttavia per ricordare di cosa si tratta: maggior tutela per chi perde il lavoro (uno dei pilastri della riforma del lavoro); piano contro la povertà minorile; scuola, sanità, sicurezza, ricerca e cultura. Negli ultimi due anni la Pubblica amministrazione ha ridotto le auto blu di quasi il 50 per cento. Si tratta di circa trentamila macchine in meno per un risparmio di oltre 500 milioni, pari alle risorse messe a disposizione per dare a 32.000 malati di epatite C un nuovo farmaco salva vita. Sarà “un semplice spostamento da un capitolo di spesa a un altro”, ma ne siamo orgogliosi.

 

In una seria comparazione internazionale, non può mancare la Germania, un paese che la Professoressa conosce bene. Un confronto non con la Germania degli ultimi anni, che grazie al suo enorme surplus commerciale non ha dovuto fare particolari sforzi di efficienza, ma con quella di Gerhard Schröder che, a ragion veduta, è considerata un caso di successo in termini di riforme compiute. Rendere la macchina pubblica più efficiente era uno degli obiettivi importanti di quel governo, ma per colpa della bassa crescita, negli anni delle riforme, tra il 2002 e il 2005 ha ridotto il peso della spesa pubblica corrente sul pil di solo 0,6 per cento. Noi nel periodo analogo, tra il 2013 e il 2016 con una crescita ancora più bassa (e inflazione quasi azzerata), siamo riusciti a ridurre questo rapporto di 1,6 per cento.


Infine, è importante sottolineare che oltre alla “dieta” da 25 miliardi stiamo lavorando per rendere tutta la macchina pubblica più efficiente. I progetti di efficienza della spesa coprono oltre il 90 per cento della spesa corrente. Ne accenno due esempi. Il primo è l’aggregazione degli acquisti, passando da oltre 30.000 centri di acquisti a 33 gestiti e coordinati in un unico sistema nazionale che comprende il governo centrale, le regioni, i comuni e le città metropolitane. Il secondo è l’utilizzo dei costi standard per definire le risorse messe a disposizione dei comuni. Sono proprio questi meccanismi che garantiscono che la revisione della spesa sia un processo continuo, profondo e sostenibile.


Pochi paesi in Europa hanno introdotto simili innovazioni. E pochi in Europa hanno compiuto sforzi di revisione della spesa simili al nostro. Gli unici paragonabili a noi in questo senso sono i quattro che hanno ricevuto ingenti aiuti europei: Irlanda, Portogallo, Grecia e Spagna. Non è una coincidenza. Una difficile e complessa riduzione di spesa è più digeribile quando è posta come una condizione per ottenere in cambio dai contribuenti degli altri paesi tanti miliardi. Noi invece possiamo dire, con un pizzico di orgoglio, che la stiamo facendo non per imposizione dell’Europa. Ci guida la consapevolezza che la revisione della spesa serve per garantire la qualità dei servizi, e per creare spazio nel bilancio pubblico per rilanciare la crescita con meno tasse e più investimenti, garantendo allo stesso tempo una riduzione del deficit e del debito.


Il confronto con la Spagna è particolarmente interessante. De Romanis osserva che la Spagna sta crescendo negli ultimi due anni più velocemente di noi. Da questo dato di fatto ne trae due conclusioni. La prima è che la cura spagnola funziona meglio della nostra. La seconda è che il motivo della (presunta) maggior efficacia è proprio l’austerità che il governo Rajoy aveva imposto a differenza dei governi italiani. Nel valutare l’efficacia delle politiche economiche è utile ricordare che nessun governo (purtroppo) possiede una bacchetta magica. Le riforme richiedono tempo per produrre i loro effetti, ed è quindi ragionevole confrontarle a parità di tempo trascorso dai blocchi di partenza. Se si accetta questo criterio, dal paragone tra il governo Rajoy e il governo Renzi emerge un altro quadro. Nel nostro caso, siamo passati da decrescita a crescita positiva dopo 3 trimestri. La Spagna ce ne ha messi 7. Nel nostro caso la disoccupazione è scesa sotto il livello iniziale al terzo trimestre. La Spagna ce ne ha messi 11. Vale la pena ricordare qua anche la performance tedesca ai tempi delle riforme di Schröder. La disoccupazione in Germania è scesa a un livello più basso rispetto al punto di partenza dopo tre anni e mezzo, quando al governo non c’era più lo stesso Schröder, ma Angela Merkel!


Un confronto serio tra l’Italia e la Spagna ci dice anche che è semplicemente falso sostenere che la Spagna ha adottato una politica economica all’insegna della austerità, mentre noi italiani incapaci di sopportare i sacrifici dell’austerità, seppur temporanei, l’abbiamo respinta. Nel 2012 la Spagna ha ridotto la spesa corrente di 9,1 miliardi. Facendo la debita proporzione con i rispettivi valori del pil, significa circa un miliardo in più rispetto a quanto abbiamo fatto noi l’anno scorso. Ma qua la similitudine finisce. La nostra bassa crescita risente pesantemente delle montagne di tasse che i governi Berlusconi e Monti hanno inflitto sulla nostra economia. Sempre nel 2012 il gettito fiscale italiano è salito di oltre 20 miliardi. Dovevano essere 50 miliardi, ma la pesante recessione che hanno indotto quei governi ha limitato il gettito aggiuntivo. Il gettito fiscale spagnolo nel 2012 è rimasto invece pressoché costante. Infine, ci sono gli aiuti europei. La Spagna ha ricevuto dai contribuenti europei 55 miliardi per ricapitalizzare il suo sistema bancario, in buona parte fallito dopo la crisi finanziaria del 2008/’09. Una iniezione importante di risorse per l’economia spagnola di oltre il 5 per cento del pil (che per noi varrebbe quasi 90 miliardi), ben superiore ai tagli di spesa del governo Rajoy. La Spagna non è cresciuta perché ha praticato una politica di austerità, ma perché ha riformato il suo mercato del lavoro e ha ricapitalizzato il suo sistema bancario con soldi europei. La riduzione della spesa è servita per contenere, non più di tanto, i deficit di bilancio che la Spagna sta registrando. Dal 2009 al 2015 il deficit medio della Spagna è stato dell’8,3 per cento portando il debito pubblico spagnolo da sotto il 40 per cento a oltre il 100 per cento.


Sommando riduzione di spesa, aumento di tasse e aiuti europei nessun paese europeo, forse con l’eccezione della Grecia, ha subìto tanta austerità quanto noi. E nessun paese in Europa sta facendo riforme con la profondità e l’ampiezza delle nostre. Riforme indispensabili per curare malanni decennali e per invertire gli effetti della recessione così lunga generata dall’austerità stessa.


 L’impegno del governo di risanare la finanza pubblica è fermo e inderogabile. Quest’anno per la prima volta dopo nove anni il nostro ingente debito pubblico ereditato dal passato inizierà a scendere in rapporto al pil. Per garantire una significativa riduzione del debito serve una crescita sostenuta dell’economia che il governo intende stimolare continuando a ridurre le tasse e ad aumentare gli investimenti. Per questo motivo, lo sforzo degli ultimi due anni sui fronti della revisione della spesa e la lotta all’evasione per creare spazio nel bilancio pubblico non solo non si ferma, ma si allarga. La riforma della Pubblica amministrazione, possiamo assicurare, porterà anche a una maggiore efficienza della macchina pubblica. Ma siccome la crescita è proprio l’elemento più importante nella strategia della riduzione del debito, serve che il percorso di riduzione del deficit sia graduato per garantire che i motori di crescita (meno tasse e più investimenti) abbiano la benzina necessaria per funzionare senza intoppi. La crescita si sostiene con l’utilizzo efficiente e rigoroso di risorse pubbliche, non con una inutile e dannosa austerità.


Yoram Gutgeld, commissario alla Spending review del governo Renzi