La food bank, la sua origine e la versione italiana. Lezioni per il nostro welfare

Marco Valerio Lo Prete
Nel finesettimana appena concluso si è tenuta in tutta Italia la Giornata nazionale della Colletta alimentare. Ecco quali sono i legami con la prima “food bank” della storia, fondata da John van Hengel a Phoenix, negli Stati Uniti, nel 1967.

    Oggi, come ogni lunedì, è andata in onda la mia rubrica "Oikonomia" su Radio Radicale. Qui potete ascoltare l'audio, di seguito invece il testo con annessi link.

     

    Nel fine settimana che si è appena concluso, si è tenuta in tutta Italia la Giornata nazionale della Colletta alimentare. Un’iniziativa giunta alla 19esima edizione annuale e che dal 1997 è una delle manifestazioni più popolari della Fondazione Banco alimentare per la sensibilizzazione e il contrasto alla povertà. Il Banco alimentare – come si ricorda nel libro “Food poverty, Food bank” appena uscito per Vita e Pensiero e curato dai sociologi Giancarlo Rovati e Luca Pesenti – nasce nel 1989 per iniziativa del Cavalier Danilo Fossati (presidente e fondatore della Star) e di Monsignor Luigi Giussani (fondatore di Comunione e liberazione). Si tratta di un meccanismo teso a limitare gli sprechi alimentari e a favorire la ridistribuzione dei surplus di cibo tra chi ne ha meno o comunque non a sufficienza. Il modello ispiratore è la prima “food bank” della storia, fondata da John van Hengel a Phoenix, negli Stati Uniti, nel 1967. Van Hengel, scomparso dieci anni fa, ricordò che una volta, mentre faceva volontariato per la sua parrocchia, si era trovato a chiacchierare con una donna che aveva 10 figli e un marito in carcere in attesa dell’esecuzione. La signora, mentre illustrava le difficoltà incontrate giorno per giorno, precisò che l’alimentazione non era un problema. Spiegò che si riforniva la sera, rovistando tra quanto veniva scartato da un supermercato locale. Van Hengel osservò l’ottimo stato di salute dei 10 figli della signora, fece un sopralluogo fuori dal supermercato, e si rese conto che effettivamente tra ortaggi e prodotti surgelati, un’ampia parte di quanto scartato era ancora utilizzabile. A quel punto chiese aiuto alla parrocchia per ottenere uno spazio dove stoccare quei prodotti, prese a trasportarli con il suo camioncino, li rese disponibili ai bisognosi e fondò la prima “food bank”.

     

    Le “food bank” – come scrivono Pesenti e Rovati – sono “caratterizzate dall’utilizzo di modalità di recupero e redistribuzione di alimenti più informali rispetto agli interventi delle istituzioni pubbliche. Più precisamente, le food bank si presentano come ‘reti di reti’ in grado di integrarsi (e talvolta sostituirsi, là dove non presenti) con i programmi di interventi istituzionali”. Nel 2014, sul totale di 40.767 tonnellate di cibo raccolte complessivamente in Italia dal Banco Alimentare, il 28% è arrivato da finanziamenti europei; la quota rimanente è stata coperta in parte con le eccedenze alimentari prodotte dalle industrie agroalimentari (29%), dall’ortofrutta (24%), dalla grande distribuzione organizzati (10,6%), e infine tramite la Giornata nazionale della Colletta alimentare (circa il 10%). Nel pianeta oggi diminuiscono a velocità record gli individui che soffrono di fame, tuttavia forme di deprivazione grave ovviamente restano presenti anche nelle società sviluppate. Ma specialmente “in un paese come l’Italia, in cui manca storicamente una misura unitaria di contrasto della povertà – scrivono gli autori del volume “Food poverty, Food bank” – il ruolo giocato dalle organizzazioni caritative, risulta ancora più rilevante che in altri paesi”.

     

    Questa analisi induce una riflessione: e se lo stato di salute della nostra Pubblica amministrazione, solitamente citato come uno dei maggiori impedimenti alle attività imprenditoriali, fosse pure uno degli ostacoli principali sulla strada di un welfare efficiente? Si prenda il dibattito mediatico degli ultimi mesi sull’introduzione di un reddito minimo garantito, come aggiunta o come alternativa ai servizi sociali elle forme di assistenza specifica già erogati. Pesenti e Rovati, in maniera incidentale, nel loro volume passano in rassegna alcuni esperimenti di sostegno al reddito e contrasto alla povertà già realizzati in Italia e poi tutti di fatto sfumati. A partire dalla sperimentazione del Reddito minimo di inserimento (Rmi) istituito nel giugno 1998 dal governo D’Alema e sperimentato nel 1999/2000 in 307 comuni in “grappoli” limitrofi a 39 comuni centrali. Alla fine fu osservato che lo strumento era inefficace per l’inefficacia nella selezione degli aventi diritto, a causa di valori di soglia Isee troppo bassi; per l’eccessiva discrezionalità lasciata ai comuni sul fronte della valutazione patrimoniale e reddituale; l’impreparazione da parte dei comuni nella gestione di uno strumento molto complesso.

     

    Nel 2008 il governo Berlusconi lanciò invece la Social card. Una forma di puro sostegno al reddito, con un importo di 40 euro al mese, sul target degli anziani e delle famiglie con figli minori di tre anni con un indicatore Isee non superiore a 6.781 euro, eccezion fatta per gli over 70 il cui Isee non deve essere superiore a 9.000 euro. L’investimento modesto spiega soltanto una parte dell’insuccesso di questa misura; piuttosto non si è tentato di legare alla Social card nessuna misura di empowerment, cioè di produzione dei cosiddetti effetti di “capacitazione” degli individui coinvolti.

     

    Poi è arrivata la Nuova Social card, oggi confluita nel Sia (Sostegno all’inclusione sociale). E' stata testata tra il 2013 e il 2015 in 12 grandi città al costo di 50 milioni di euro. “La misura prevede una gestione interamente demandata ai comuni, con eventuale presenza dei Centri per l’impiego e di soggetti del terzo settore nella fase di accompagnamento per la parte di inclusione sociale e lavorativa della persona – ha scritto Pesenti sul Foglio – Dopo una lunghissima fase preparatoria, i risultati finali sono stati ancora una volta inferiori alle attese Sempre per problemi di natura burocratico-amministrativa. Si è riconfermata la difficoltà a intercettare i potenziali aventi diritto, la generale lentezza burocratica delle procedure, la mancanza di finanziamento sul fronte dei servizi di riattivazione del soggetto. Tutti elementi che rendono monco e tendenzialmente ‘passivizzante’ un intervento che invece, nelle sue premesse, avrebbe dovuto tendere alla rimessa in pista dei soggetti coinvolti”.

     

    L'attuale Pubblica amministrazione italiana è caratterizzata da una radicata difficoltà a valutare l’operato di singoli operatori della macchina burocratica (statale, regionale o comunale che sia); da elevati differenziali di rendimento amministrativo; da arretratezza nell’infrastrutturazione informatica, mancanza di reti informative unificate tra diversi livelli istituzionali. Insomma, con l’attuale Pubblica amministrazione non è detto che possiamo permetterci un reddito minimo garantito davvero funzionante. E chissà quante altre inefficienze continuiamo a scaricare sulle persone più deboli nel nostro paese.