L'innovazione vs. la manifattura sul lavoro. Cosa c'entra lo yoga

Marco Valerio Lo Prete
Una ricerca dell'economista Enrico Moretti (Università di Berkeley) basata sull’analisi di 11 milioni di lavoratori americani in 320 aree metropolitane, mostra che per ogni nuovo posto di lavoro creato nell’industria tradizionale si producono 1,6 posti di lavoro nei servizi locali, mentre un posto di lavoro creato nell’industria hi-tech ha un effetto triplo.

    Oggi come ogni lunedì è andata in onda "Oikonomia", la mia rubrica su Radio Radicale. Qui potete ascoltare l'audio, di seguito invece il testo.

     

    Nelle scorse due puntate (qui la prima e qui la seconda) ho analizzato l’evoluzione del numero degli occupati nella tradizionale industria manifatturiera in America. Concludendo, tra le altre cose, che a fronte del declino dei posti di lavoro nella classica industria che fabbrica oggetti di consumo, oggi è il settore dell’innovazione, largamente intesa, che almeno negli Stati Uniti genera occupazione. Rifacendomi alle analisi di Enrico Moretti, economista italiano all’Università di Berkeley in California, ho ricordato che nel settore dell’innovazione è oggi impiegato il 10% dei lavoratori americani. Ho concluso la scorsa puntata con una notazione dello stesso economista: “Anche se il loro numero è in forte aumento, si tratta di un settore che non arriverà mai a impegnare la maggioranza della forza lavoro. (…) Anche l’industria manifatturiera però, nel suo momento di massima espansione, arrivò a impiegare non più del 30% della forza lavoro americana”.

     

    Oggi mi soffermerò sulle ragioni di questo “tetto”, poi spiegherò perché comunque è dall’innovazione ampiamente intesa che dipende larga parte della prosperità di un’economia, non soltanto nei settori di frontiera.

     

    Innanzitutto c’è da dire, come sottolinea lo stesso Moretti, che “in una società moderna la maggioranza dei posti di lavoro riguarda i servizi locali”. E’ il settore che gli economisti chiamano “non traded”, cioè “non commerciato”, perché l’infermiere, l’insegnante, il cameriere, il personal trainer offrono servizi che per forza di cose sono prodotti e consumati localmente, ergo sono al riparo da tanta parte della concorrenza nazionale e soprattutto internazionale. “Negli Stati Uniti, due terzi di tutti i lavori appartengono a questo settore. I 27 milioni di posti creati negli ultimi vent’anni si sono in larga misura prodotti nel settore non-tradable – scrive Moretti nel suo libro “La nuova geografia del lavoro” pubblicato da Mondadori nel 2013 – con il comparto sanitario al primo posto per ritmo di crescita”.

     

    Detto ciò, è però sempre il settore “traded”, quindi quello in cui si muovono manifattura e innovazione, a determinare larga parte della prosperità di un’economia nazionale. Innanzitutto perché chi sfida la concorrenza internazionale ha generalmente aumenti maggiori di produttività. Produttività che invece cresce in maniera modesta in tanti dei settori “non tradable”, visto che per fare un corso di yoga a 50 persone serve sempre lo stesso numero di istruttori, oggi come 50 anni fa. “Maggiore produttività dei lavoratori nel settore traded – scrive Moretti – significa retribuzioni più alte, non solo per chi opera in tale settore, ma anche per gli addetti di altri lavori, specie coloro che hanno una preparazione di qualità equivalente”.

     

    C’è poi una seconda ragione per cui l’innovazione ha un effetto-trascinamento non solo nei settori di frontiera. “Ogni volta che un’impresa crea impiego nel settore dell’innovazione, indirettamente crea ulteriori posti di lavoro nel settore non-traded della città in cui opera”. Assumere un nuovo ingegnere o un nuovo matematico per lavorare in un’azienda di software, vuol dire creare nuove opportunità di lavoro per infermieri, medici, istruttori di yoga, avvocati, eccetera. “L’aspetto sorprendente – secondo l’economista di Berkeley – è che l’impatto indiretto sull’economia locale è molto più ampio dell’impatto diretto”. Una ricerca dello stesso Moretti basata sull’analisi di 11 milioni di lavoratori americani in 320 aree metropolitane, mostra che per ogni nuovo posto di lavoro creato nell’industria tradizionale si producono 1,6 posti di lavoro nei servizi locali, mentre un posto di lavoro creato nell’industria hi-tech ha un effetto triplo, producendo altri cinque posti fuori dall’ambito hi-tech nel lungo periodo.

     

    Le ragioni di un effetto moltiplicatore così significativo sono almeno tre. La prima: gli addetti dell’hi-tech in America sono molto ben pagati, e quindi usufruiscono di una quantità maggiore di servizi locali rispetto agli altri lavoratori. Inoltre, accanto al consumo personale dei dipendenti, l’attività stessa delle aziende hi-tech si appoggia a molte imprese di servizio locali. Terzo motivo: le imprese hi-tech hanno la tendenza a concentrarsi una accanto all’altra; questo effetto concentrazione potenzia appunto l’effetto moltiplicatore.

     

    Per concludere questa serie, c’è un altro aspetto dell’industria dell’innovazione che la distingue da quella manifatturiera. La prima è ancora caratterizzata da un’alta intensità di lavoro umano, mentre la meccanizzazione è molto più rampante nella seconda. Moretti, per dimostrare che “la creazione di valore economico dipende dal talento come mai in passato”, ricorda il caso di una delle tante acquisizioni compiute da Facebook ai danni di società più piccole, comprate e poi chiuse. Sono acquisizioni tese in realtà non tanto a lanciarsi in business alternativi o complementari, ma ad acquisire il capitale umano di queste nuove start-up. Perché come ha dichiarato a questo proposito Mark Zuckerberg, l’amministratore delegato di Facebook, “uno che fa il suo lavoro in modo eccezionale non è solo un po’ meglio di uno bravino: è cento volte meglio”. Globalizzazione e progresso tecnologico, “le stesse due forze che hanno causato il crollo del lavoro nei settori dell’industria – conclude Moretti – stanno oggi alimentando l’ascesa degli impieghi nel settore dell’innovazione”.