
Cosa c'è dietro la manifattura che "scompare" in America
Lunedì scorso, come ogni settimana, su Radio Radicale è andata in onda la mia rubrica "Oikonomia". Qui potete trovare l'audio, di seguito invece il testo con i link.
Negli Stati Uniti, il tasso di disoccupazione è sceso in ottobre fino al 5 per cento. Per fare un raffronto, nei 19 paesi dell’Eurozona il tasso di disoccupazione è più che doppio di quello americano, pari all’11 per cento; in Italia a settembre era all’11,8%. Come ho già detto in una precedente puntata di questa rubrica, lo straordinario dato americano, se osservato da vicino, diventa un po’ meno straordinario per gli standard della prima economia del pianeta.
In America rimane infatti contenuto il tasso di partecipazione alla forza lavoro, cioè il rapporto tra la forza lavoro – la somma degli occupati e di quei disoccupati che comunque cercano lavoro – e il totale della popolazione in età lavorativa. Il tasso di partecipazione alla forza lavoro è al 62,4 per cento. Anche se di molto superiore al 49 per cento dell’Italia, nel dicembre 2007, quando iniziò la recessione, lo stesso tasso di partecipazione alla forza lavoro in America era al 66 per cento, quasi 4 punti in più di oggi. E’ addirittura dal 1978 che non si vedeva infatti una “partecipazione” al mercato del lavoro così bassa. Mentre dunque il tasso di disoccupazione è tornato ai livelli pre crisi, il mercato del lavoro americano non è più quello di allora. Di ciò si possono riconoscere ragioni congiunturali e strutturali. Tra queste ultime, ho già parlato del progressivo pensionamento dei baby boomers e del loro spostarsi in una fascia d’età in cui teoricamente si può lavorare ancora, ma concretamente lo si fa meno.
C’è poi un’altra evoluzione del mercato del lavoro americano che fa discutere gli economisti: mi riferisco alla presunta scomparsa degli occupati nel settore manifatturiero, cioè la classica industria che fabbrica oggetti di consumo. Ne parlerò in questa e nella prossima puntata. Caterpillar, la nota azienda statunitense con sede in Illinois e che produce veicoli e macchinari per costruzione ed estrazione, ha appena fatto sapere che licenzierà 5.000 persone nel 2016 e comunque fino a 10.000 entro il 2018. Ciò è dovuto in parte al rallentamento della congiuntura globale, in parte a cambiamenti strutturali che stanno avvenendo nell’economia. Se nel 1979 c’erano 19,5 milioni di occupati nell’industria manifatturiera su 225 milioni cittadini americani di allora, oggi il numero di occupati nell’industria è di 12,3 milioni di persone su oltre 310 milioni di americani. Un altro indicatore di questo declino manifatturiero emerge analizzando la capitalizzazione totale di mercato delle prime cinque società quotate in quattro Borse mondiali: il Nasdaq, l’indice dei principali titoli tecnologici americani, la Borsa di New York, quella di Parigi e quella di Milano. Il think tank Atlantic Council osserva che le prime cinque società più giovani e tecnologiche quotate al Nasdaq rappresentano una quota primaria della capitalizzazione di Borsa complessivamente considerata; le prime cinque società americane più tradizionali del Nyse (come Exxon e Ge), invece, rappresentano una fetta più piccola del mercato complessivo, per non parlare delle società di Francia e Italia con una capitalizzazione di Borsa ancora inferiore. Allo stesso tempo, il rapporto tra numero degli impiegati e capitalizzazione di Borsa dimostra che le società americane quotate al Nasdaq danno lavoro a meno persone di quanto non facciano le società europee in rapporto alla loro inferiore capitalizzazione di Borsa. Queste società dunque, pur essendo entità finanziarie gigantesche, sembrerebbero contribuire con relativamente meno posti di lavoro all'economia americana. Facebook, per esempio, ha una capitalizzazione di Borsa pari a 337 miliardi di dollari, praticamente la metà di tutta Piazza Affari a Milano, e solo 9.000 dipendenti.
Ma davvero ci sono soltanto cattive notizie dietro questi numeri? Non è così. Innanzitutto, se il calo degli occupati nella manifattura è indiscutibile nel medio-lungo periodo, è pure vero che nel breve periodo sta succedendo l’opposto. La temuta fuga all’estero degli operatori manifatturieri non è irrefrenabile. Tanto che dal 2012 gli occupati nella manifattura americana sono ricominciati ad aumentare, da 11,9 milioni si è arrivati agli attuali 12,3 milioni. Più in generale, comunque non è la prima volta che un settore delle nostre economie sviluppate perde perso rispetto agli altri, il che non è di per sé rivelatorio dell’avvicinarsi della catastrofe. Per restare all’America, nel 1840 il 70 per cento della forza lavoro americana era impegnato nell’agricoltura; all’inizio del XX secolo la percentuale era scesa a 40; negli anni 30 del ‘900 era pari al 20 per cento, oggi è meno del 2 per cento. Eppure il cibo, in America, non scarseggia; l’automazione nel settore primario ha fatto sì che meno occupati potessero produrre di più. Nella manifattura in fondo sta accadendo lo stesso, con notevoli aumenti di produttività. In un recente studio dell’Institute for Economic Develompment dell’Università del Texas, si cita il caso di un impianto manifatturiero del valore di 120 milioni di dollari e che creerebbe solo 50 posti di lavoro; oppure un impianto per il trattamento del gas naturale, in Texas, costato 100 milioni di dollari e che dà lavoro a sole 48 persone.
[**Video_box_2**]Un altro fattore che ha iniziato a pesare fin dagli anni 60 è l’outsourcing. Le società manifatturiere della prima metà dello scorso secolo erano verticalmente integrate, sia nella catena di fornitura, sia nel supporto amministrativo. Negli anni 50 però società oggi divenute storiche come la Adp (Automatic Data Processing), si sono iniziate a occupare esternamente delle buste paga dei dipendenti, per esempio; e dagli anni 60, mentre le aziende si focalizzavano sul loro core business, molte funzioni simili sono state esternalizzate. Questo ha comportato formalmente una calo dei dipendenti computati nella manifattura, ma sostanzialmente l'indotto diretto del settore è mutato meno di quanto appaia.
Più recentemente sono aumentati infine i posti di lavoro legati all’innovazione tout court, a discapito della manifattura vecchio stile. Per intenderci, come ha scritto Thomas Tunstall, direttore del San Antonio Institute for Economic Develompment all’Università del Texas, “nel 2007 gli sviluppatori di app per iPhone non esistevano ancora, ma nel 2011 Apple già incassava 15 miliardi di dollari per le sole app”. Della sfida radicale dei settori più innovativi alla manifattura, anche in termini di occupazione, parlerò però nella prossima puntata.