Se Deutsche Bank (e non solo lei) si deve inchinare alle regole sul patrimonio

Marco Valerio Lo Prete

    Come ogni lunedì, su Radio Radicale stamattina è andata in onda la mia rubrica "Oikonomia". Qui potete trovare l'audio, di seguito invece il testo.

     

    E’ notizia della scorsa settimana che Deutsche Bank licenzierà 35.000 dipendenti in tutto il mondo (tra cui 9.000 a tempo pieno sui circa 100.000 totali, 6.000 collaboratori e 20.000 posizioni in società satellite in dismissione), e si ritirerà da dieci paesi da qui al 2020. Non solo. Quello che a oggi è il più grande istituto di credito tedesco, per la prima volta dal Dopoguerra non pagherà nessun dividendo ai suoi azionisti per i prossimi due anni. Il tentativo dichiarato del Ceo, John Cryan, è quello di ridurre le spese e migliorare livelli di patrimonializzazione della banca. In particolare lo scopo, secondo gli analisti, è quello di raggiungere un target di Common Equity Tier 1 ratio almeno del 12,5% entro la fine del 2018.

     

    Cos’è dunque questa unità di misura della robustezza finanziaria delle banche chiamata “Common equity Tier 1 ratio”? Per capirlo riprendo il ragionamento della scorsa settimana sugli accordi di Basilea, intese di cui si iniziò a discutere alle metà degli anni 70 per definire i requisiti minimi di capitalizzazione degli istituti che operano sui mercati internazionali. Rifacendomi ampiamente, tra le altre fonti, all’ebook “Alle radici della crisi finanziaria”, appena pubblicato da Egea editrice e scritto dall’economista Carlo Milani, attento osservatore del mercato bancario, ho già ricordato come nell’accordo di Basilea 1 del 1992 il capitale bancario venisse diviso in due categorie: “Il Tier 1 capital, ovvero il capitale di migliore qualità o di classe 1 in quanto composto dal capitale effettivamente versato e dalle riserve per utili non distribuiti e su rischi generali; e il Tier 2 capital, il capitale di classe 2, formato dal Tier 1 a cui si somma il capitale supplementare, composto a sua volta dai fondi svalutazione crediti, dalle riserve di rivalutazione titoli, dai debiti subordinati con scadenza superiore ai 5 anni, dagli strumenti ibridi di capitale”.  Inoltre l’accordo di Basilea 1 ruotava attorno a un requisito patrimoniale minimo obbligatorio dell’8% delle attività creditizie di ogni banca ponderate per il rischio di credito (o risk-weighted asset, RWA).

     

    Dopodiché, per superare alcuni limiti di Basilea 1, nel 1999 furono avviate le discussioni su un nuovo accordo, Basilea 2, che alla fine entrò in vigore nel 2007, con la rilevante eccezione degli Stati Uniti. Basilea 2 si fondava su tre pilastri: i requisiti minimi di capitale, con un’estensione delle regole già previste da Basilea 1; la supervisione da parte delle Banche centrali con una maggiore discrezionalità nel valutare l’adeguatezza patrimoniale delle banche; infine una più forte disciplina di mercato, attraverso l’imposizione di regole di trasparenza per l’informazione al pubblico.

     

    Quanto all’affinamento delle norme sui requisiti patrimoniali minimi, oltre al requisito di accantonamento dell’8% del capitale, sono stati distinti tre tipi di rischio da valutare: di credito, di mercato e operativi. E per quanto riguarda il calcolo del rischio di credito, si è aperta alla possibilità di usare, accanto al metodo standard che fa ricorso ai rating assegnati dalle apposite società, anche un Internal ratings based approach in cui è la banca stessa che prevede rating interni e calcola il rischio di credito. Secondo Milani proprio questo meccanismo di autovalutazione del rischio ha incentivato gli stessi istituti di credito a sottostimare alcuni pericoli, diventando uno degli elementi di maggiore debolezza di Basilea 2. Anche perché “l’uso dei modelli interni per la valutazione dei rischi favorisce le banche di maggiori dimensioni, quelle in grado di investire di più in questa forma più evoluta di risk management. In tal modo – sostiene Milani – si incentiva la crescita dimensionale delle banche, favorendo il problema del too big to fail”. Un altro limite, secondo gli analisti, sarebbe stato il fatto che i requisiti minimi di capitale stabiliti da Basilea 2 sono “prociclici”, cioè l’assorbimento di capitale aumenta durante le recessioni, determina la riduzione dei finanziamenti ai privati – il cosiddetto credit crunch – e dunque alimenta ulteriore crisi economica.

     

    E’ anche per ovviare a tali limiti che nel 2010, dopo la crisi finanziaria originata in America nel 2007-08, i principali paesi industrializzati danno vita a Basilea 3. Quest’ultimo accordo entra parzialmente in vigore quest’anno e poi totalmente nel 2019 dopo una fase di transizione. Resta immutato il parametro minimo complessivo del patrimonio, pari all’8% delle attività ponderate per il rischio, ma cambia la composizione richiesta. Viene definito infatti in maniera più rigorosa il Tier 1 capital – o capitale di classe 1 - di cui ho detto sopra, o patrimonio di base, quello composto per ogni banca dal capitale versato, dalle riserve e dagli utili non distribuiti. Al suo interno viene distinto il Common Equity Tier 1 (o Cet 1), il capitale primario di classe 1, quindi principalmente il capitale versato, e poi il Tier 1 aggiuntivo; di ciascuno dei due viene fissato un ammontare minimo. Oltre a ciò, le banche devono poi accumulare un buffer di capitale aggiuntivo. Senza scendere per ora in ulteriori dettagli e numeri, è anche tentando di rafforzare il proprio patrimonio per rispettare questi nuovi e più esigenti standard che Deutsche Bank, uno dei più grandi istituto di crediti europei, sta attraversando una fase di radicale e dolorosa trasformazione.