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Poste Italiane, quando una quotazione non fa primavera

Rocco Todero
Il Tesoro si ritiene soddisfatto della quotazione parziale di Poste Italiane e preventiva di destinare gli introiti all'abbattimento di un colossale debito pubblico. Poste dovrà comunque ristrutturarsi ma chiudere uffici e piccoli sportelli non sarà una passeggiata. 

Roma. La quotazione parziale delle Poste Italiane si è conclusa ieri con una domanda che ha superato quattro volte l'offerta. Il Tesoro, azionista unico della società di spedizioni e servizi bancari e assicurativi, ha messo sul mercato il 38,2 per cento delle quote dopo un'operazione dalla lunga gestazione portata a conclusione dall'ad Francesco Caio, nominato nel 2014 dal governo Renzi.

 

Caio, ex presidente del cda di Lehman Brothers Europe, ha compiuto nelle scorse settimane dei roadshow tra le piazze finanziarie anglosassoni raccogliendo interesse per il collocamento azionario da parte degli investitori qualificati. Le azioni sono state allocate per il 70 per cento dell'offerta (317,1 milioni di azioni) agli investitori istituzionali e per il 30 per cento (135,9 milioni di azioni) al pubblico indistinto e ai dipendenti del Gruppo. Nella lista dei sottoscrittori figura, tra gli altri, il fondo del Kuwait, fondi cinesi e Ontario, il fondo pensione degli insegnanti canadesi. Della partita, secondo MF/Milano Finanza, fanno parte poi grandi asset manager come Fidelity, Blackrock, Pioneer, Union Investments, oltre agli italiani Generali e Kairos, e il fondo norvegese Norges.

 

L'offerta globale di vendita di 453 milioni di azioni di Poste, pari al 38,2 per cento della società, ha garantito al Tesoro un introito di 3,058 miliardi, che potrebbe salire a 3,364 miliardi nelle prossime settimane in caso di integrale esercizio dell'opzione greenshoe (un diritto di sottoscrivere entro 30 giorni 45,3 milioni di titoli al prezzo di collocamento che potranno essere collocate sul mercato come quota aggiuntiva). Il ministro dell'Economia, Pier Carlo Padoan, ha detto che la quotazione di Poste rappresenta "l'operazione più importante realizzata nell'Ue quest'anno" in una situazione di mercato in cui alcune Ipo in Europa sono state rinviate o ridimensionate nelle aspettative di incasso. Il Tesoro, che finora ha detenuto interamente il capitale della società, secondo le dichiarazioni di Padoan, impiegherà gli introiti ottenuti dalla quotazione parziale – dunque tra i 3,05 e i 3,36 miliardi di euro –  per l'abbattimento del debito pubblico italiano che ammonta a 2.199 miliardi di euro a luglio, secondo la Banca d'Italia. "Le risorse ottenute dalla valorizzazione – ha detto Padoan – vanno all'abbattimento del debito pubblico e contribuiscono al processo virtuoso di diminuzione del rapporto debito/pil".

 

[**Video_box_2**]Resta da capire come procederà l'annunciata ristrutturazione del gruppo post-quotazione. Da alcuni anni il concessionario del servizio postale sta tentando di alleggerire la sua struttura portando avanti un piano di chiusura degli uffici che non assicurano l’equilibrio economico finanziario e che producono perdite in maniera costante ed irreversibile. Si tratta, per lo più, di uffici collocati in piccoli comuni o nelle frazioni di piccoli borghi di periferia dove l’esiguo numero degli utenti e dei servizi resi non assicura positivi risultati di gestione. L’operazione, tuttavia, non ha ancora sortito gli effetti desiderati per la strenua opposizione dei comuni e dei cittadini interessati dal piano di ristrutturazione di Poste. Non c’è stata chiusura di ufficio postale ordinata dai vertici della società pubblica, infatti, che non sia finita davanti ai Tribunali amministrativi ed al Consiglio di Stato per la lamentata eliminazione di un servizio pubblico essenziale che arrecherebbe pregiudizio irreparabile alle comunità locali.

 

A spuntarla nella stragrande maggioranza dei casi sono stati i ricorrenti poiché i Tribunali hanno sottolineato da un lato come Poste sia tenuta, in virtù di diverse disposizioni normative, ad assicurare che i cittadini possano accedere al servizio postale entro una distanza massima dalla loro residenza, cosicché se in seguito alla chiusura l’ufficio più vicino disti più di 2 -3 Km il diritto ad usufruire del servizio postale sarebbe sostanzialmente negato e, dall’altro, che il concessionario del servizio universale non può procedere all'eliminazione degli uffici territoriali facendo esclusivamente riferimento al mancato raggiungimento dell’equilibrio finanziario perché verrebbe meno la “coesione sociale”  che invece deve essere assicurata su tutto il territorio nazionale.

 

Il piano di ristrutturazione, dunque, è rimasto pressoché lettera morta e con esso i risparmi che ne dovevano derivare attraverso il recupero di efficienza sul piano aziendale che il colosso pubblico si era prefissato.

 

La vicenda merita di essere raccontata innanzitutto perché consente di evidenziare come nell’epoca della posta elettronica certificata, delle raccomandate on line e dell’home banking, quello postale sia ancora considerato (dalla legge in primo luogo) servizio pubblico essenziale per la “fisicità” della sua struttura immobiliare e della dotazione di personale e non già per l’immaterialità dell’efficienza delle prestazioni erogate. Le nuove tecnologie sembrano sparite dall'orizzonte e solo in alcuni casi il Consiglio di Stato (in sede consultiva) ha segnalato come la possibilità per il postino di ricevere, ad esempio,la raccomandata direttamente al domicilio di chi effettua la spedizione grazie ai nuovi lettori ottici elimina alla radice il danno derivante dalla chiusura dell'ufficio. Ma nella maggior parte delle decisioni, come detto, si afferma che la possibilità di recarsi all’Ufficio postale percorrendo solo poche centinaia di metri dal luogo della propria abitazione assicurerebbe addirittura la “coesione sociale” che non si sa bene tuttavia cosa sia e in cosa si materializzi.

 

A ciò si aggiunga che la sottovalutazione del dato economico, della necessità di raggiungere l’equilibrio finanziario anche per i singoli uffici postali e l’obbligo di svolgere il servizio universale per mezzo delle modalità sin qui cristallizzate nella legge e dall’interpretazione dei tribunali impediscono a Poste italiane di operare unicamente sotto la guida di criteri tipicamente imprenditoriali.

 

Resta il fatto che oggi Poste deve svolgere un servizio universale in maniere capillare sul territorio nazionale, non può procedere ad una ristrutturazione che prenda le mosse dalla chiusura degli uffici più piccoli e non redditizi; nello stesso tempo deve competere con gli istituti di credito che operano sul territorio nazionale e tenta, infine, di reperire sul mercato capitali privati per un suo ulteriore sviluppo industriale. Qualcosa non torna.

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