Il presidente del Consiglio Matteo Renzi con Pier Carlo Padoan (foto LaPresse)

Così il fisco renziano alletta il ceto medio stangato da Visco

Renzo Rosati
La promessa riforma fiscale sarà una rivoluzione elettorale. L’obiettivo è una trasfusione completa, con sangue fresco rispetto al sistema circolatorio redistributivo, solidaristico e pauperista.

Roma. Se per il premier Matteo Renzi l’abolizione del Senato elettivo si annuncia come una battaglia “one shot” – vinci o perdi – contro la minoranza del Pd, la promessa riforma fiscale sarà anche, e magari soprattutto, una rivoluzione elettorale. L’obiettivo è una trasfusione completa, con sangue fresco rispetto al sistema circolatorio redistributivo, solidaristico e pauperista. Ovvero quel sistema difeso dai Bersani e dai Gotor, quello che raccoglie l’afflusso delle vene della Cgil, le arterie dei contribuenti sindacalmente e socialmente assistiti tra Isee e patronati (non necessariamente i veri poveri), la parte di proprietà immobiliare che sovente campa sulle esenzioni e sul catasto fasullo. In altri termini, il premier vuol partire alla caccia di una base sociale al di fuori del 30 per cento “de sinistra”, mirando ai cosiddetti moderati; termine certo vago e inflazionato ma corrispondente a un elettorato in cerca di approdo. Non sarà il Vietnam promesso dalla minoranza dem, piuttosto una campagna lunga, infatti immaginata di (almeno) tre anni. La ri-abolizione dell’imposta sulla prima casa è la mossa immediata, a minor costo ma a più alto impatto simbolico. L’allora Ici fu cancellata da Silvio Berlusconi nel 2008, reintrodotta “oversize” da Mario Monti, scalpellata su ordine berlusconiano dal cacciavite di Enrico Letta, rimessa quest’anno. Insomma l’Ici-Imu-Tasi cambia, oltre che di nome, anche a seconda del colore politico dominante.

 

Renzi ha deciso che non dovrà più essere una tassa di sinistra. E Pier Luigi Bersani in fondo gli dà, pavlovianamente, ragione quando dice: “Non si riducono le tasse come vuole Berlusconi”. Il partito dell’Imu coincide poi con quello dei sindaci, il che significa una constituency fatta di municipalizzate e servizi e dipendenti locali che di quegli introiti si alimentano. E del sindacato che vi pascola. Il governo rimborserà sì i comuni, ma a costo fisso: una notevole differenza. Il taglio di Irap e Ires nel 2017 va ad impallinare – dopo il primo intervento quest’anno – l’imposta sulle attività produttiva ideata nel 1998 da Vincenzo Visco, ministro delle Finanze del governo ulivista di Romano Prodi. Per anni zar della strategia fiscal-sociale dei Ds e della sinistra, Visco resta con Bersani l’ispiratore della contromanovra fiscale fieramente alternativa a quella di Renzi (ci arriveremo). L’Irap è in ogni caso un’altra tassa a elevata simbologia, in quanto finanzia la Sanità che proprio l’Ulivo, nel 2001, trasferì sotto il diretto, e irresponsabile, controllo delle regioni; con quel che ne è conseguito. Ma la parte più strategica dell’operazione Renzi è nel taglio dell’Irpef previsto nel 2018: il premier vuole ridurre di 5 punti l’aliquota del 38 per cento che colpisce i redditi lordi da 28 a 55 mila euro. Cioè i netti tra 2 mila e 2.600 mensili. Ovvero, in massima parte, proprio quelli sui quali intervenne all’inverso portando la tassazione dal 33 al 38 (solo la fascia marginale fu limata di un punto) il governo Prodi dell’Unione, sempre con Visco alle Finanze, vice di Tommaso Padoa-Schioppa che dichiarava “le tasse sono bellissime”. Quella manovra del 2007 produsse un saldo di 8 punti di aliquote in più, abbattendosi oltre che sui redditi medi su quelli oltre i 55 mila euro. Il risultato è in un recente studio del Tesoro: il 10 per cento dei contribuenti, con redditi appena oltre i 2 mila euro netti al mese, paga il 51,7 di tutta l’Irpef. Chi guadagna sopra i 55 mila lordi, pur essendo il 5 per cento dei contribuenti, si sobbarca un altro 39 per cento. Insomma: considerando che 10 milioni di redditi minimi sono esenti da tasse, giù in basso – l’area finora sempre tutelata dalla sinistra – siamo un paese fiscalmente un po’ greco. Renzi inverte la rotta e interviene nella fascia media, che paga di più ed è politicamente figlia di nessuno. La proposta rilanciata oggi dal think tank Nens di Visco-Bersani ha invece al centro l’aumento al 42-43 per cento dell’Irpef proprio oltre i 28 mila euro. Capìta la posta in gioco? E perché non sarà solo una questione fiscale, ma sociale ed elettorale?

 

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