La sovranità monetaria logora chi ce l'ha. Il caso americano

Marco Valerio Lo Prete

    Oggi, come ogni lunedì, è andata in onda la mia rubrica "Oikonomia" su Radio Radicale. Cliccando qui potete ascoltare l'audio (sono solo 4 minuti!), di seguito invece il testo.

     

    In un suo libro del 2000 intitolato “Alla ricerca della sovranità monetaria”, l’economista Paolo Savona, già ministro della Repubblica e già dirigente della Banca d’Italia, precisava cosa dovesse intendersi per “sovranità monetaria”. E lo faceva in maniera preveggente, fornendo indicazioni utili ancora oggi. Innanzitutto scriveva che “è sovrano chi decide e impone la sua volontà, con la forza, con la legge o con la creazione di uno stato di fatto”. Poi aggiungeva che “queste forme di sovranità hanno caratterizzato nell’ordine la storia dell’evoluzione della moneta. La sovranità monetaria ha un contenuto in senso stretto, di tipo analitico (con un codicillo di tipo pratico), e uno in senso lato, di tipo storico politico. Con il primo s’intende il potere e la capacità dei governanti di fissare il prezzo (cioè il tasso d’interesse) o, alternativamente, la quantità di moneta. Con il secondo, la capacità degli stati di fare scelte di governo, indipendentemente dall’influenza estera, sia di tipo politico generale, sia di tipo strettamente monetario e finanziario. Il codicillo pratico è legato all’ampiezza dei contenuti delle grandezze monetarie e dei tassi dell’interesse, per cui il ‘potere di fissare’ si deve intendere come ‘potere di influenzare’”.

     

    Dopodiché Savona sottolineava come, a dispetto di certe letture del tempo, “il tema della sovranità monetaria si lega ormai strettamente a quello della foreign dominance (cioè del dominio esterno, ndr), e non a quello della fiscal dominance (cioè del dominio fiscale, ndr)”. In parole più semplici, a un paese non basta disporre di una Banca centrale indipendente dal governo e dai suoi obiettivi di politica fiscale per essere pienamente “sovrano” dal punto di vista monetario. Inflazione, variazione dei rapporti di cambio e altri fattori che hanno il potere di alterare le condizioni economiche dipendono sempre più da fattori esterni ai nostri confini. In Italia, con la cessione o condivisione della politica monetaria con la Banca centrale europea, oramai lo sappiamo bene. Quel che è più curioso è che perfino gli Stati Uniti, il cui dollaro è considerato da decenni la valuta di riserva globale, devono scendere a patti con forme di vincolo esterno alla loro politica monetaria. 

     

    Lo dimostra il fatto che l’Amministrazione democratica di Barack Obama, infatti, sta tentando di seguire quello che definisce “uno storico cambiamento di approccio” agli accordi di libero scambio in fieri. Washington infatti per la prima volta vorrebbe utilizzare la stesura di questi accordi, come quello in discussione con i paesi del Pacifico e poi in prospettiva il Ttip con l’Unione europea, per convincere gli altri paesi a non manipolare le proprie valute al fine di avvantaggiarsene in maniera ingiusta. Un’idea, secondo la ricostruzione del quotidiano finanziario Wall Street Journal, sarebbe quella di obbligare tutti i paesi a fornire un numero maggiore di dati e indicatori sull’andamento delle proprie politiche monetarie e delle proprie valute; in questo modo, secondo il Tesoro americano, “si potrebbe fare nuova luce sulle politiche di cambio di un paese”. Alcuni parlamentari però, prima di concedere all’Amministrazione Obama la cosiddetta “fast-track authority” che assegna maggiori poteri al Presidente per la conclusione degli accordi di libero scambio, vorrebbero andare oltre la mera sorveglianza rafforzata delle politiche di cambio altrui. Preferirebbero inserire piuttosto delle dure sanzioni per chi manipola il cambio a fini commerciali. Questi congressmen citano studi, peraltro autorevoli, come quello di Fred Bergsten, direttore del Peterson Institute for International Economics, secondo cui la manipolazione della valuta cinese al ribasso da parte di Pechino, negli ultimi anni, sarebbe costata agli Stati Uniti qualcosa come cinque milioni di posti di lavoro in meno.  Ovviamente le diplomazie degli altri paesi, incluso un alleato storico dell’America come il Giappone, tutto vogliono tranne farsi imporre un’ulteriore ed ennesima forma di “foreign dominance”, o dominio esterno, da parte degli Stati Uniti.