Metti un giorno la Troika in Italia. Veni, vidi, scappai. Il diario di Tanzi

Marco Valerio Lo Prete
Tanzi, pugliese di nascita, dopo una laurea alla George Washington University e un dottorato a Harvard nel 1966, decise di restare negli Stati Uniti. Dal 1981 al 2000 è stato direttore del Dipartimento per le Politiche fiscali, una delle più influenti direzioni del Fondo monetario internazionale. Poi il (fugace) ritorno a Roma

    Roma. “Ricordo che nei primi mesi chiesi una copia della rubrica telefonica degli impiegati del ministero dell’Economia, per sapere chi vi lavorava e per potermi, occasionalmente, mettere in contatto direttamente con alcuni di loro, quando era necessario, senza bisogno di chiedere, ogni volta, ai miei assistenti di farlo. Scoprii che, stranamente, un tale elenco non esisteva nel ministero a quel tempo. Fui anche avvertito che, qualunque telefonata avrei fatto, sarebbe probabilmente stata ascoltata e registrata da qualcuno, e che non dovevo considerare sicuro il mio computer. (…) Non ricevetti un organigramma del ministero fino a verso la fine del 2002, quando fu incluso nell’Agenda per il 2003”. E’ soltanto uno degli svariati e gustosissimi aneddoti raccontati da Vito Tanzi nel suo ultimo libro, “Dal miracolo economico al declino? Una diagnosi intima”, in uscita in italiano per la casa editrice di New York Jorge Pinto Books e da oggi disponibile su Amazon.

     

    Tanzi, pugliese di nascita, dopo una laurea alla George Washington University e un dottorato a Harvard nel 1966, decise di restare negli Stati Uniti. Dal 1981 al 2000 è stato direttore del Dipartimento per le Politiche fiscali, una delle più influenti direzioni del Fondo monetario internazionale (Fmi), direzione che deve avere un certo feeling con gli italiani, visto che lo stesso posto è stato poi occupato da Carlo Cottarelli dal 2008 al 2013. E proprio Tanzi, pure in questo una sorta di Cottarelli ante litteram, nel 2001 scelse di rispondere “sì” alla telefonata dell’allora neo ministro dell’Economia del secondo governo Berlusconi, Giulio Tremonti, che gli chiedeva di diventare suo sottosegretario. Il finale, si sarà già capito, fu lo stesso cui è andato incontro più di recente il commissario alla spending review Cottarelli: nemmeno due anni e Tanzi – non poco tramortito, però senza sollevare polemiche – rassegnò le dimissioni e tornò da dove era venuto. In questa scelta contò, e non poco, la delusione per un governo di centrodestra che secondo Tanzi era nato a trazione liberista e presto aveva subìto un’involuzione statalistapopulista.

     

    L’economista del Fmi ricorda di essere stato attirato eccome dal Tremonti che nel 1997 mandava in stampa un pamphlet intitolato “Lo Stato criminogeno”. Salvo poi, nel luglio 2001, trovarsi attovagliato nel ristorante “Mario”, a Roma, con attorno quasi tutti i parlamentari della Commissione Bilancio; con la Finanziaria alle porte, Tremonti spiegò che non c’era spazio per regalìe a suon di spesa pubblica, visto che i conti erano già ballerini e l’impegno prioritario era il taglio delle tasse; piuttosto, racconta con stupore Tanzi, “per favorire particolari politici, o particolari clienti, vicino al governo, i presenti potevano fare richieste, per incarichi e per posizioni ufficiali, in varie istituzioni pubbliche, oppure nei consigli di amministrazione di imprese pubbliche, o in imprese con partecipazione statale”. La riforma delle fondazioni bancarie “avrebbe creato nuove opportunità per nomine ai Comitati esecutivi”. Dalle pagine del diario di Tanzi, però, non emerge nessun tipo di astio personale. Piuttosto s’intende che il dissidio politico di allora fu solo uno dei fattori che lo spinsero a lasciare. E’ il contesto economico e culturale che gli apparve asfissiante. Contesto coriaceo e che è sopravvissuto all’esperienza di governo di allora, come dimostrano gli anni che seguirono di crescita stentata e di robusta decrescita. Tanzi già nel 1993 aveva guidato una missione del Fmi nel nostro paese per aiutare il ministero del Tesoro in una razionalizzazione del sistema fiscale. Affiancato da indiscusse autorità accademiche in materia come l’indiano Premchand, l’economista italiano vide all’opera tutti i meccanismi deleteri di elargizione della spesa pubblica che aveva analizzato a livello teorico. Perché Tanzi, divenuto americano per passaporto, rimane comunque uno dei maggiori studiosi e divulgatori internazionali della Scienza delle finanze di tradizione italiana, “una scuola che, a differenza di quella anglosassone, aveva riconosciuto che i governi e non solo il mercato possono soffrire di molte deficienze”. Carenze spesso camuffate da opulenza a spese del contribuente, come ricorderanno a Tanzi i 16 addetti che si ritrovò nella sua segreteria del ministero. E poi la concertazione come filtro anti riformatore, i burocrati che sovrastano i politici, la scarsa alfabetizzazione economica.

     

    Il tutto per una conclusione semplice ma radicale: “I paesi con più successo economico si fidano di più delle forze del libero mercato – nel decidere dove investire le loro risorse e impiegare i loro lavoratori – e lasciano più spazio a quelle forze”. A fronte di un’Italia ancora largamente unfit per la globalizzazione. Da cui perfino i rappresentanti (informali) della Troika scappano, per fortuna o forse no.