I due amanti che hanno sparato al marito di lei. Il vecchio che ha soffocato il figlio disabile

Redazione

    Delitti
     

    Gianfranco Ambrosoni, 53 anni. Separato e padre, viveva con la madre a Bussero, Milano. Qualche trascorso con le droghe ma ormai noto come «una persona perbene e tranquilla», era stato a lungo disoccupato, poi ultimamente s’era trovato un lavoro da operaio e i compaesani, che da anni lo vedevano girare in bicicletta, da qualche tempo lo incontravano al volante di una Golf. L’altra sera andò a bere un caffè al bar e assistette a una lite tra due tizi completamente ubriachi: uno era un Salvatore Empoli di anni 44, vigile urbano in forze da cinque anni nella polizia locale di Segrate, descritto come un Rambo «prepotente, pieno di sé» con la passione per la divisa, le armi, il distintivo e l’alcol. Ambrosoni si avvicinò, provò a calmare i due, poi d’un tratto l’Empoli si allontanò di corsa, salì a casa sua, prese una delle sue pistole. Quando tornò in strada incrociò Ambrosoni e prese a sparargli addosso. L’altro provò a scappare, corse per un centinaio di metri verso la metropolitana ma fu centrato da sei proiettili, di cui uno, fatale, alla testa.
    Alle 10 di sera di venerdì 30 ottobre in viale Europa a Bussero, Milano.

     

    Ernesto Ienco, 31 anni. Agricoltore calabrese, sposato con Sabrina Marziano, 28 anni. Due anni fa aveva presentato alla moglie un Agostino Micelotta di anni 21, di mestiere falegname. I due, diventati amanti, progettavano un futuro insieme e siccome il marito di lei, che li aveva smascherati, li ostacolava, avevano deciso di liberarsene. La notte del 25 ottobre scorso, all’una e venti circa, lo Ienco rientrò in casa da un matrimonio fuori paese. Ad attenderlo c’erano la moglie e il di lei amante che prima gli spararono addosso quattro colpi di fucile caricato a pallettoni e poi, con un corpo contundente, colpirono il cadavere più volte al cranio. Dopo il delitto la donna, interrogata dai carabinieri, disse che quella notte era stata svegliata dagli spari e raccontò che il marito, vicino alla ’ndrangheta, teneva in casa armi e spacciava droga. I due, arrestati sabato 31 ottobre, incastrati dai messaggi che s’erano scambiati su whatsapp. Non quelli della vigilia del delitto, che avevano cancellato, ma quelli precedenti. Una settimana prima s’erano scritti: «On viju l’ura u pulizzamu amò» e «domenica speriamo».
    Notte di domenica 25 ottobre a Riace, Reggio Calabria.

     

    Paolo Santachiara, 51 anni. Tetraplegico dalla nascita, costretto a vivere sulla carrozzella e a dormire attaccato a un respiratore, stessa sorte toccata qualche anno fa al fratello sposato. Ciononostante s’era diplomato a pieni voti, andava volentieri allo stadio e ai concerti, aveva tanti amici. Viveva in una villetta a Suzzara, nel Mantovano, col padre Luigi, 88 anni, ex dipendente di una scuola superiore che per muoversi aveva bisogno del girello, e con la madre Selene Zaolini, 84 anni. Da tempo il Santachiara Luigi si chiedeva cosa ne sarebbe stato del figlio quando lui e sua moglie non avrebbero più avuto le forze per accudirlo. L’altro giorno, la Zaolini in ospedale con un braccio rotto, l’uomo tolse il respiratore al figlio, gli sigillò bocca e naso col nastro adesivo, e lo lasciò nel letto agonizzante. Quindi andò in balcone, legò una corda alla ringhiera e all’inferriata della finestra, l’altro capo se lo girò attorno al collo, e si buttò di sotto. A vederlo che penzolava fu la dirimpettaia quando, appena sveglia, aprì la finestra. In casa fu trovato un biglietto: «Scusatemi per il folle gesto».
    All’alba di mercoledì 3 novembre in una villetta linda e ordinata in via Omero a Suzzara, nel Mantovano.

     

    Suicidi

     

    A.B., 28 anni. Di Ceglie Messapica (Brindisi), viveva a Lecce per frequentare l’università e fra un mese avrebbe discusso la tesi di laurea presso la facoltà di Scienze politiche. L’altra sera, chissà perché, prese la Glock legalmente detenuta per uso sportivo, se la puntò alla tempia, e fece fuoco. A trovare il cadavere sul pavimento, in una pozza di sangue, furono i genitori, che non riuscendo a contattare il figlio erano andati a vedere cosa gli fosse capitato.
    Sera di mercoledì 4 novembre in un appartamento in via Gianmatteo a Lecce.

     

    Giuseppe D., 24 anni. Di Pozzuoli, benvoluto da tutti, disperato da quando la fidanzata l’aveva lasciato, l’altro pomeriggio, mentre i genitori erano fuori casa, scrisse su Facebook «un bacio e un abbraccio a tutte le persone che mi hanno voluto bene veramente» poi andò nello sgabuzzino, legò una corda a una trave, l’altro capo se lo girò attorno al collo e si lasciò penzolare.
    Pomeriggio di venerdì 6 novembre nel Rione Toiano a Pozzuoli, Napoli.

     

    Simone Lovison, 36 anni. Ultras del Padova, disperato per la morte del padre, l’altra sera, tornato a casa dopo il funerale, telefonò a un amico per dirgli addio, appese una corda al gancio della botola che porta nel sottotetto, l’altro capo se lo girò attorno al collo, e si lasciò penzolare.
    Sera di martedì 3 novembre in via Taliercio a Mestrino, Padova.