World History Encyclopedia (Google creative commons)
La prefazione
I libri vichifestizzati, una lezione su cosa vuol dire non accontentarsi della prima impressione
Pubblichiamo la prefazione di Mattia Feltri al libro di Lodovico Festa “Non sapendo fare a maglia”
Giunto alla cinquecentocinquantacinquesima citazione, mi sono chiesto se Lodovico Festa – Vichi, come lo chiamano gli amici – abbia mai letto Javier Marías. Se fra le migliaia milioni di libri letti, accumulati, catalogati, sottolineati, vichifestizzati ci sia anche il formidabile scrittore spagnolo, morto troppo presto di troppe sigarette, e in particolare Il tuo volto domani, romanzo in tre volumi che è forse – per mio personalissimo contestabilissimo giudizio – il capolavoro di questa frazione d’inizio millennio. Il protagonista, Jaime Deza, è arruolato da Bertram Tupra, probabilmente dei servizi segreti, perché la sua analisi e comprensione delle persone e delle situazioni non è mai banale. Deza ha la scintilla e Tupra la vuole trasformare in fiamma. “Che ne pensi?” – chiede Tupra. Deza risponde. Tupra dice: “bene, ma non basta, dimmi qualche cosa di più. Deza pensa e dice qualche cosa di più” e Tupra insiste: “non basta, puoi fare di meglio”. Questa è la disciplina da applicare a noi stessi, senza bisogno dello sprone di Tupra, se non vogliamo restare al palo della prima impressione, ché se va bene è luogo comune, se va male è pregiudizio.
Prima che ne scrivesse Marías, e cioè alla fine del millennio precedente, Tupra io lo avevo a portata di mano nella redazione del Foglio, il quotidiano fondato da Giuliano Ferrara e condiretto da Vichi, e nel quale ero stato ingaggiato per un destino benevolo. Tupra era Vichi. Occupava una stanza piccina in cui viveva nascosto da pile di fogli stampati o pagine strappate dai giornali, a centinaia e centinaia, e lì ci convocava per assegnarci articoli su questo o quello, e intanto pescava nel mucchio il ritaglio a noi indispensabile, al primo colpo, con stupefacente precisione. Ci chiedeva, prima di scrivere l’articolo, di illustrarglielo e nove volte su dieci l’illustrazione era deludente. Se avesse avuto tempo, come Tupra, ci avrebbe spronati a un passo in più e poi un altro e un altro, ma siccome i nostri non erano romanzi ma pomeriggi di lavoro, a nemmeno metà dell’esposizione Vichi diceva, cercando di mascherare con risolini il nervosismo, qual era il punto, come raggiungerlo e come da lì ripartire per altre mete. Non so gli altri, ma io mi sentivo un perfetto imbecille. Mi sembrava di essere uno che cercava di descrivere che cosa c’era fuori dalla finestra e, mentre ero impegnato sui più affascinanti dettagli, arrivava Vichi e – risolino – apriva le serrande e, ecco: forse ora puoi vedere qualcosa.
E’ stato così che abbiamo imparato – non so con quali risultati – a non accontentarci mai della prima impressione. Come Deza con Tupra. E la prima impressione di Vichi nella sua stanza, occultato da pile di fogli stampati o pagine strappate dai giornali, era quella di un uomo immerso nella sua vita operosa, un archivista di se stesso e della sua architettura di pensiero. E cioè era come se, senza quelle colonne di carta, tutto potesse collassare poiché ogni cosa Vichi dicesse e facesse la faceva o diceva dentro la concretezza della vita operosa. Quando leggerete questo libro capirete che, per una volta, Vichi stesso ha avuto di sé soltanto una prima impressione, ha creduto essenzialmente operosa la vita nella quale era immerso, e di aver scoperto e accostato la vita meditativa soltanto dopo, abbandonati i fuochi politici e giornalistici. Quando le pile di carta hanno smesso di essere una barriera, Vichi ha preso a parlarmi di William Shakespeare, che continua a essere una delle mie grandi lacune, e di cui questo libro è pieno di citazioni. In una lettera indirizzata a Evert Augustus Duyckinck, Hermann Melville si dà dell’asino per avere vissuto fino ai ventinove anni “senza aver mai fatto un vera conoscenza del divino William”. Nessuna vita meditativa, commenta Vichi, può avere seriamente inizio senza Shakespeare. Eccomi di nuovo tagliato fuori. Ma prima ancora, prima di finire sommerso dalle pile di carte, e molto prima di esserlo dalle pile di tragedie scespiriane, Vichi lo era stato dalle pile di libri che il padre gli aveva inviato in Inghilterra dove, concluse le scuole medie e in attesa di cominciare le superiori, era andato a studiare l’inglese.
La lista di quell’estate per molti altri sarebbe la lista di un’esistenza: Aleksandr Puškin, Denis Diderot, Voltaire, Lev Tolstoj, Cesare Pavese, Honoré de Balzac, Anatole France, Thomas Mann, Rudyard Kipling, Joseph Conrad, Italo Calvino, Ernest Hemingway, Alberto Moravia “e ancora un po’ di autori russi, tedeschi, americani, inglesi e naturalmente italiani”. Alcuni di loro li trovate qui dentro perché immagino che in quella lontana estate sia nata in Vichi l’esigenza – se immediatamente tradotta o no in attività operosa non importa – di appropriarsi delle pagine lette, selezionarle, custodirle, che poi è il modo più operoso di celebrare una vita meditativa. Cinquecentocinquantacinque citazioni o aforismi o versi sono un grande regalo: a noi che possiamo impadronirci di un così inestimabile tesoro; agli scrittori e ai poeti scelti, poiché ognuno di loro ha scritto sognando di essere maneggiato con tanta delicatezza e cura, di essere vivisezionato, ritagliato, di diventare un pezzo della biografia dei lettori; un regalo che Vichi ha sempre fatto a se stesso, mettendo da parte pile di fogli, pile di libri, pile di citazioni, per rispetto di sé, rispetto del lavoro, del pensiero, della vita operosa e della vita meditativa, per non fermarsi mai alla prima impressione: mettere giù un punto fermo e da lì ripartire, e fare un po’ meglio.
Qui potete trovare un estratto del nuovo libro: