La recensione

Cioran, l'esiliato metafisico

Luigi Azzariti-Fumaroli

Pubblicati da Adelphi gli  "Esercizi negativi", testi in cui Cioran consegna le sue riflessioni, "espresse per la prima volta in un idioma temprato alla scuola dei grandi moralisti"

In un tombino! Ecco la fine del manoscritto cui Cioran – si legge in un suo scartafaccio – aveva lavorato per diversi mesi durante la guerra e che nel 1946 aveva gettato nella fogna, «all’incrocio tra Rue Racine e Rue Monsieur le Prince». Che si trattasse dell’abbozzo del “Sommario di decomposizione”, pubblicato tre anni dopo, è plausibile. Già allora vi stava mettendo mano, se è vero che qualche notazione, poi ripresa, in francese, nell’opera del ‘49, potrà di lì a poco leggersi sulle pagine della rivista degli esiliati “Luceafărul”, dove troveranno pubblicazione i suoi ultimi scritti in rumeno. Benché risiedesse stabilmente in Francia dal 1937, Cioran aveva infatti sempre malvisto la possibilità di abbandonare la propria lingua materna. Almeno fino a dopo la guerra, quando la scelta di scrivere in francese fu assunta in ragione della sempre più cogente necessità – confesserà più tardi – di diventare «più univoco, più lineare»: di imparare a pensare contro i propri dubbi non meno che contro le proprie certezze. Il prendere congedo dal rumeno significò per lui – come dichiarò in una lettera del dicembre 1946 all’amica Jeni Acterian – dire «addio alle illusioni che ho ereditato o che ho inconsciamente coltivato, una specie di teoria dell’esilio metafisico senza pretese di filosofia, la quale mi sembra più che mai ridicola».

 

Una dichiarazione, quest’ultima, nella quale si condensa larga parte di quegli “Esercizi negativi” (appena pubblicati da Adelphi, nella calibrata versione di Cristiana Fantechi) cui Cioran consegna le sue riflessioni, espresse per la prima volta in un idioma temprato alla scuola dei grandi moralisti, con una sintassi relativamente elementare, ma animata da una grandissima tensione, e che costituiscono i preliminari al “Sommario”, rispetto al quale, però, conservano una forza invettiva più indomita e radicale. Come testimoniano le rampogne caustiche, beffarde, se non crudeli, rivolte contro Kierkegaard, filosofo solo per dissimulare «i suoi momenti di grande cedimento», Heidegger, corifeo della «moda della morte nella filosofia contemporanea», Sartre, «artefice d’un nichilismo da boulevard».

 

Invero, l’esistenzialismo – «un orientamento del pensiero, a metà strada fra il sistema e l’ispirazione» – è oggetto degli strali di Cioran nella misura in cui esso rappresenta l’epitome di quell’«astrazione» da cui egli si è lasciato impregnare nei suoi anni giovanili, e che sceglie ora di preterire non riuscendovi a trovare un contravveleno efficace alla sua «insonnia» esistenziale, alla «vertiginosa lucidità» capace di «trasformare il paradiso stesso in un luogo di tortura». Come dimostrano le “invocazioni” all’insonnia ch’egli rivolge negli “Esercizi” (siccome nel “Sommario di decomposizione”), questa non ha qui un valore metaforico, ma si pone in concreto, diretto legame con il proprio corpo, che trasalisce assuefatto dall’impossibilità che il tempo trascorra, facendosi infinito, al punto da mettere in discussione la vita stessa. Perché – dichiarò Cioran nel corso d’una intervista concessa nel 1979 – «l’uomo non è fatto per tollerare il tempo, né fisicamente né psichicamente, non è fatto per sentire che ogni minuto è realtà e che si trova solo di fronte al tempo che non passa o che passa molto lentamente».

 

Sono, quelle dell’insonnia, le notti d’un tempo anti-circadiano: nuits blanches, nelle quali c’è sempre luce: dove tutto è chiaro, di una chiarezza spaventosa. Che porta con sé pensieri e immagini che ossessionano e travagliano la scrittura cioraniana, contraddistinguendone il timbro caustico, aspro, rabidamente ironico. Non privo d’un che d’assuefacente. Quasi un’intossicazione instillata a freddo, che come ulteriormente si avverte concludendo la lettura degli “Esercizi negativi” spinge a familiarizzare con un nichilismo tanto ostentatamente accigliato, intransigente e severo da sembrare sconfinare in un teatrale voyerismo del vuoto, nella messinscena d’una melanconia che non genera altro che la propria «eterea lacerazione». Facendo così nutrire il sospetto che dietro l’aruspice del negativo si menta alla fine uno smaliziato intrattenitore. Come ha scritto John Updike, «originario della terra di Dracula, Cioran, claustrofobicamente a suo agio con l'orrore, il dolore, l'abnegazione e la rabbia», si atteggia ad istrionico profeta di sciagure, simile a quello tratteggiato da Mann in un breve racconto del 1904, il quale «solitario cantava, farneticava, comandava; si perdeva in intricate immagini, sprofondava in un gorgo di sconnessioni e riemergeva, improvviso e pauroso, là dove meno lo si sarebbe aspettato».