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Venezia canta l'immensità: al via la 69esima edizione della Biennale

Mario Leone

La Biennale 2025 celebra la musica “cosmica”, senza confini né censure. E la Laguna si lascia attraversare e trasformare. L'edizione 2025 è diretta da Caterina Barbieri, compositrice e musicista italiana: "è il coronamento di un percorso che non pensavo giungesse sino a questa nomina"

Venezia. All’ingresso della Basilica di San Marco è rappresentato un grande Giudizio universale. Gesù indossa una tunica bianca e un mantello azzurro. Mostra le ferite della Passione e ha un nimbo luminoso crociato sul capo. Con la mano sinistra, abbraccia la pesante croce del suo martirio mentre ai lati due angeli suonano le trombe che chiamano i morti a risorgere per il giudizio finale. Venezia è città della musica. Ospita nel suo cimitero il corpo di Igor Stravinskij e ha visto nascere e operare Antonio Vivaldi, Giovanni Gabrieli ma anche maestri del XX secolo come Luigi Nono, artisti capaci di imprimere svolte decisive all’arte dei sette suoni. Venezia, però, è anche città d’arte, consacrata tale il 30 aprile del 1895 con l’Esposizione Internazionale, ampliata nel corso del ’900 con il Festival internazionale di musica contemporanea (1930) e la Mostra internazionale d’arte cinematografica (1932), oggi riconosciuta come il più antico festival del cinema al mondo. Attraverso riforme istituzionali – dall’autonomia negli anni Trenta alla trasformazione in fondazione nel 1998 – tutta la Biennale è rimasta un osservatorio internazionale per la sperimentazione, delineando, negli anni, proposte “capaci di imprimere un salto – dice il presidente Pietrangelo Buttafuoco – ampliando gli orizzonti: dall’internazionale all’universale, dal contemporaneo a una proiezione verso il futuro”.


La sessantanovesima edizione della Biennale Musica si è aperta in una Venezia avvolta da un inverno mite: le giornate più corte, con il buio che avvolge calli e campielli, e un mondo sonoro pluriforme dove il passo sui masegni diventa accento, la gondola che fende il canale un richiamo lontano. La città “metà fiaba e metà trappola” ospita una Biennale che, progressivamente, ha trasformato il suo profilo da rassegna di élite a laboratorio internazionale, capace di contaminare spazi urbani e pratiche performative. Negli anni Sessanta e Settanta la programmazione si è sganciata dal mero avanguardismo accademico per abbracciare installazioni, performance e progetti site-specific che hanno ribaltato l’idea di concerto: la musica ha invaso i canali e l’arsenale, mettendo la città stessa in condizione di ascolto. La Biennale è rimasta fedele a questa sua missione, operando dentro un immaginario profondo e dialogando con un patrimonio emotivo dove vincono le relazioni, accostamenti di voci apparentemente lontane, rituali e sperimentazioni. Non “un alto” o “un basso”, ma una serie di pratiche che si parlano. L’edizione 2025 è diretta da Caterina Barbieri, compositrice e musicista italiana con un percorso che lei stessa definisce “ibrido”. Gli anni di formazione, tra Conservatorio e Università, sono segnati da uno spirito critico e curioso verso la sperimentazione e il contemporaneo che la vedono presente sulla scena internazionale, in particolare all’Ircam, l’Istituto per la ricerca e la coordinazione acustica e musicale, al Barbican e in rassegne come Atonal, Sonar, sino alla Biennale. “Non avevo previsto di essere chiamata alla Biennale – dice la Barbieri – c’è stato un percorso con alcune collaborazioni artistiche culminate con la mia partecipazione al padiglione Italia lo scorso anno. E’ stato il coronamento di un percorso che non pensavo giungesse sino a questa nomina. Portare la mia visione a un livello così istituzionale è davvero prezioso e importante per me”.


“La stella dentro” è il titolo di un festival che quest’anno guarda alla musica senza preclusioni e sterili chiusure. “Il titolo viene da questa immagine poetico-simbolica della musica come desiderio di vastità – continua la musicista – sete di infinito, qualcosa che connette l’uomo al cosmo, operando la connessione tra il visibile e l’invisibile, microcosmo e macrocosmo, materiale e immateriale. Quindi il tema del festival è attorno a un’idea cosmica di musica che non è uno stile o un genere, ma fa riferimento al potere generativo della musica di evolvere, mutare pelle e far dialogare mondi distanti”. Tutto questo avviene condensando passato e futuro nell’istante dell’ascolto che riesce a connettersi anche con l’identità acquatica della città: la mutevolezza, il cambiamento, il gioco di riflessi che apre alla prospettiva d’infinito. Venezia non è mai mera ambientazione: è strumento, “coautrice”. La laguna entra nelle partiture come la traversata verso l’isola segreta di Star Chamber. Le Sale d’Armi dell’Arsenale si trasformano in un LSD Centre, “La Stella Dentro Centre”, luogo che accoglie quotidianamente talk e listening. Così il programma della Biennale Musica si snoda come un arcipelago di pratiche che intrecciano elettronica, minimalismo, tradizione vocale e comunità performativa. Si parte con “Cry of Our Guardian Star”, suggestiva processione sull’acqua ideata da Chuquimamani-Condori, dove nove barchini amplificati fondono cosmologia andina e sperimentazione digitale in una cerimonia mobile. Ci sono poi gli appuntamenti serali al Teatro alle Tese e al Teatro Malibran con nomi che spaziano da Rafael Toral a Bendik Giske, da Nkisi a Meredith Monk, fino a Basinski, Fennesz, Sunn O))) e ai dj-set notturni di Carl Craig e Mia Koden. Ogni evento è pensato come ponte fra tempi e linguaggi dove il sintetico e l’organico, il rituale e la pista, la memoria e l’ipotesi futura si osservano e si contaminano.


Sono tante le prime assolute, affidate a compositori attivi nel mondo della musica contemporanea. Un’apertura al nuovo che non dimentica chi è stato “padre” di un desiderio inesausto di ricerca e innovazione. Questo è stato uno dei motivi per cui è stato assegnato a Meredith Monk il Leone d’Oro alla carriera. Malgrado gli 82 anni, la compositrice e performer statunitense (acclamata come una vera star) continua a essere un’artista multidisciplinare, capace di spaziare dalla musica d’avanguardia alla classica contemporanea, dall’elettronica sperimentale al jazz e al pop, ispirando generazioni di artisti. Una personalità nel mondo musicale che ha segnato e ri-orientato le potenzialità della voce umana, trasformandola in un veicolo di esplorazione sonora senza precedenti. In questo alveo, il Leone d’Argento assegnato a Chuquimamani-Condori, statunitense di origine boliviana, voce visionaria nella musica sperimentale contemporanea, ha l’effetto di allargare il discorso musicale, connettendolo a temi di carattere identitario, culturale e storico.


Tra gli eventi che hanno destato maggiore curiosità c’è “Star Chamber - Secret Island”: non un concerto tradizionale, ma un dispositivo performativo che trasforma la traversata in parte integrante dell’opera e tiene segreta, fino all’ultimo momento, la meta dell’evento. La partenza in barca, i punti di raccolta, l’attraversamento della laguna e l’approdo sono pensati come tappe di una partitura diffusa nello spazio, dove la città stessa – moli, ponti, rive – si comporta da strumento. Ideato come esperienza collettiva, il progetto recupera la lezione delle grandi drammaturgie spaziali del Novecento, ma ne rilegge la “processionalità” in chiave contemporanea: non rito chiuso, bensì comunità sonora temporanea. Il pubblico non si limita ad ascoltare: è chiamato a muoversi, a comporre con il corpo la forma dell’opera passando da un luogo all’altro dell’isola. “Enfatizzando lo spaesamento, l’attenzione e la sospensione delle aspettative convenzionali del pubblico – spiega Caterina Barbieri – ‘Star Chamber - Secret Island’ si svolge come un’esperienza continua e basata sul tempo. Il pubblico viene guidato attraverso epifanie musicali che celebrano l’architettura e l’atmosfera uniche dell’isola, invitandolo a immergersi completamente in atti effimeri e sensibili al luogo”. L’esito promesso è netto: “Restituire Venezia come protagonista dell’atto creativo, facendo dell’attraversamento e dell’approdo non soltanto un gesto logistico ma un atto estetico”.


Partecipando alla ricchissima proposta della Biennale ci si accorge del tentativo di guardare al contemporaneo da tutti i punti di vista, non censurando alcuna manifestazione. Una proposta che affascina un pubblico di tutte le età, spesso molto giovane e costituito non solo da italiani. Aumentano gli spazi che accolgono queste esperienze sonore, gli studi, per non parlare delle nuove tecnologie – su tutte l’intelligenza artificiale – che stanno dando una spinta importante al settore. Resta una certa chiusura da parte delle grandi stagioni che non rischiano nemmeno un titolo stagionale all’interno di un cartellone “classico”. “C’è un’idea della musica contemporanea come qualcosa di necessariamente ostico, non accessibile – continua la Barbieri – invece la musica contemporanea può essere molto sensuale e coinvolgere mente e corpo. Le persone non si avvicinano a questi mondi per pigrizia, non vogliono lasciare delle zone di comfort. Se anche le grandi stagioni musicali introducessero qualche novità, sono certa che il pubblico sarebbe coinvolto e finalmente non ci sarebbe quella divisione stantia tra generazioni e repertori. Quando giro per la Biennale mi piace tantissimo incontrare persone di generazioni diverse, bambini e anziani insieme”. Se ne possono incontrare in grande numero anche tra le installazioni che la Biennale propone, veri spazi contemplativi aperti durante tutto il giorno.

Quest’anno sono due: “Elevations” di Maxime Denuc in collaborazione con Kris Verdonck e “Songs of Ascension” di Meredith Monk. Quella di Denuc è un’opera per organo computerizzato ideata assieme al maestro organaro belga Tony Decap. Un flusso musicale ipnotico e malinconico – definito dall’autore come “nostalgia futuristica ibrida” – che nasce da flauti acustici comandati elettronicamente, evocando la transizione tra notte e giorno, tra passato e presente, tra analogico e digitale. L’organo, lungo otto metri, si erge come centro acustico e visivo dello spazio. La sua sonorità stratificata invita lo spettatore a una contemplazione in cui ogni respiro sonoro diventa architettura. Il lavoro di Meredith Monk, invece, è pensato come un santuario del suono. L’installazione non ha un inizio o una fine: il pubblico può entrare, sostare, muoversi liberamente, lasciandosi avvolgere da un paesaggio sonoro ciclico e meditativo. Le voci e i suoni si intrecciano in un flusso continuo, evocando l’idea di ascesa spirituale, trasformazione e connessione con l’invisibile. Lo spazio è allestito come un luogo sacro, con luci soffuse e una disposizione che favorisce la contemplazione. Non si tratta di una performance dal vivo, ma di un ambiente sonoro che vive nel tempo, aperto all’ascolto individuale e collettivo.


La Biennale si chiude con “Shinkolobwe” di Moor Mother, artista afroamericana tra le più radicali della scena sperimentale. Porta in scena un’opera che mescola parola, suono elettronico, materiali d’archivio e antiche lamentazioni. Il titolo fa riferimento alla miniera di uranio Shinkolobwe, in Congo, sfruttata durante la Seconda guerra mondiale per la costruzione della bomba atomica. Il lavoro diventa così un archivio disturbato dove il tempo si piega e collassa, e la storia naturale si intreccia con la violenza imperiale. Un racconto non lineare nel quale, all’interno di un complesso paesaggio sonoro, emerge un messaggio politico e spirituale: la memoria può aiutare a vincere il trauma e mutarlo in resistenza. Un tema attualissimo, il modo più forte e chiaro per dire qual è il compito e il valore della Biennale di Venezia: “Mi auguro che la musica possa essere un’esperienza trasformativa – conclude la Barbieri – qualcosa che non inizia e finisce durante il concerto, a cui spesso l’ascoltatore assiste in maniera passiva, ma che possa rimanere nel profondo qualcosa che muove e trasforma. I momenti di collettività possono favorire questa ‘conversione’ spirituale, cosa sempre più rara nella nostra società”.

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