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Bestsellers
Può ancora aver successo un libro che non sia un acritico manifesto pol. corr.?
Nell'ultimo romanzo di Ken Follett, ambientato nella preistoria, i pastori sono pacifisti e paladini della libertà sessuale, gli agricoltori sono maschilisti e opprimono le donne, queste ultime vivono in una comunità separata dal villaggio e la cultura è competenza esclusiva delle sacerdotesse. Ormai aderire alla mentalità corrente è imprescindibile
Questa non è una recensione dell’ultimo libro di Ken Follett, non oserei mai: chiunque abbia scritto anche solo dieci pagine, infatti, non può nascondere l’invidia che prova nei confronti di uno dei più fecondi e fortunati autori di best seller del nostro tempo. Anche io sono tra i suoi numerosissimi lettori, perché tra l’altro Follett usa spesso la storia come sfondo dei suoi romanzi e in particolare la storia di periodi poco noti, come l’Alto medioevo.
Ma con con il suo l’ultimo libro Il cerchio dei giorni l’autore inglese supera se stesso, ambientando il racconto nella preistoria, in uno dei luoghi più misteriosi ma anche più famosi che di questa epoca lontana è giunto fino a noi, le pietre di Stonehenge. Come sempre un romanzo avvincente nel quale emergono alcuni aspetti che meritano una riflessione, anche se Follett ci propone di lasciar perdere: “Nei miei libri non ci sono messaggi. Il mio scopo è che i lettori li finiscano”.
Degli esseri umani dell’epoca in questione naturalmente non sappiamo quasi nulla, e quindi l’autore ha facile gioco a inventare modi di vivere, di mangiare, di vestirsi, di abitare, e la realtà che ricostruisce è interessante, anche se spesso la sua audacia nell’immaginare comportamenti improbabili, può irritare chi sa qualcosa di storia. Ma quello che stupisce è fino a che punto le invenzioni romanzesche di Follett siano singolarmente moderne, cioè vicine, molto vicine, forse troppo vicine, alle mode culturali di oggi. Ad esempio, i pastori del romanzo sono descritti come pacifisti. Sì, avete letto bene: non pacifici, ma pacifisti, cioè combattono consapevolmente per la pace, che vogliono un mondo in pace. Un pregevole atteggiamento che secondo l’autore deriva, è evidente, dal ruolo egemonico esercitato tra di essi dalle donne, pacifiste per eccellenza, che chissà perché egli immagina tipico delle comunità pastorali.
Naturalmente però, accanto ai buoni devono esserci i cattivi e in questo romanzo i cattivi sono gli agricoltori, i quali sono maschilisti, opprimono le donne, e sono sempre alla ricerca di nuove terre da conquistare e coltivare: metafora evidente di quei perfidi governi, anche attuali, che vogliono ampliare il più possibile i propri poteri. Dimenticavo: i pastori sono anche paladini della libertà sessuale, etero e omo, tanto da vedere di buon occhio pure la nascita di figli frutto di relazioni esterne alla vita di coppia, che comunque praticano con dedizione. Quanto alla cultura, essa consiste essenzialmente – ci racconta Follett – nella conoscenza dei numeri, nella capacità di calcolo e nell’astronomia e, manco a dirlo, è un ambito esclusivo delle sacerdotesse. Cioè di donne che amano le donne e vivono in una comunità separata dal villaggio, ma mantenute dalla comunità dei pastori.
Che dire? Non farò certo l’errore di raccontare la trama, mi basta dire che il lettore, come si sarà senz’altro capito, è portato a vedere nelle comunità dei pastori un mondo ideale, pacifico, libero, comandato dalle donne, nel quale – dimenticavo – la religione è naturalmente sostituita dalla scienza: insomma il mondo utopico al quale il libro implicitamente ci invita ad aspirare.
Non c’è da stupirsi: per avere successo è fondamentale dare voce alla mentalità corrente. Ma è proprio inevitabile, mi chiedo, che tale mentalità venga presentata senza una critica, senza un dubbio, senza il più tiepido allarme per l’esito al quale ci sta conducendo? C’è davvero bisogno che a fare i banditori del politicamente corretto ci si mettano anche gli scrittori della grande fiction di consumo? A proposito di un mondo – ahimè per nulla preistorico – in cui domina il pensiero unico, in cui ogni dubbio e ogni critica ha sempre una voce troppo flebile, che a volte assomiglia in modo inquietante a una dittatura soft mascherata da libertà.