dal profilo Instagram del Teatro dell'Opera di Roma

a teatro

I due atti unici di Janácek e Poulenc, all'Opera di Roma

Federico Freni

Il regista Andrea Bernard mette in scena un dittico difficile: il "Diario scomparso" e "La voix humane". Disegna uno spettacolo unico e mai volgare che è puro teatro, esempio di cosa si debba intendere quando si parla di attualizzare il melodramma 

In un mondo fatto di specchi, in un mondo di pixel e plasma, ritrovarsi improvvisamente di fronte alla propria solitudine è cosa rara. Siamo tutti troppo distratti dalla contingenza del quotidiano per riuscire ad alzare lo sguardo oltre la linea dello schermo. Non che serva per forza arrivare all’arcinoto cielo stellato, talvolta basterebbe solo fermarsi qualche minuto per poter osservare la gabbia isolante intorno a noi. Ecco, fermarsi. E’ quello che succede nel potente e bellissimo spettacolo che Andrea Bernard mette in scena all’Opera di Roma. Un dittico difficile, musicalmente non proprio adatto a ogni palato. Due atti unici che nascono lontanissimi per forma, lingua e contesto ma che divengono un unico spettacolo.

Il “Diario di uno scomparso” di Leoš Janácek e “La voix humane” di Francis Poulenc (il libretto di quest’ultimo è pur sempre di Jean Cocteau, si parva licet) trovano matrice comune nella declinazione della solitudine umana. Una solitudine che, ieri come oggi, deforma tempo e spazio, plasmando attorno a noi una condizione da cui fuggire è impossibile. Restano così, prigionieri della stessa gabbia, tanto il contadino protagonista del “Diario” (divorato da un senso di colpa di cui non si libererà neppure dopo aver lasciato la famiglia d’origine), che la donna senza nome protagonista della “Voix humane”, che cerca un futuro impossibile in un amore ormai esaurito. Tutti e due accomunati dall’impossibilità di accettare la realtà per quel che è.


Andrea Bernard disegna uno spettacolo unico, elegantissimo, mai volgare. Puro teatro. La musica – splendidamente eseguita al pianoforte solo da Donald Sulzen – stavolta è elemento quasi accessorio rispetto alla scena. Complice la presenza di una terna di straordinari cantanti-attori (Anna Caterina Antonacci, diva assoluta della “Voix”, e Matthias Koziorowsky con Veronica Simeoni nel “Diario”), lo spettacolo scorre fluido e, ancorché dotato di una potente carica erotica, non scade mai nel quotidiano berciare cui troppe regie ci hanno abituato.


Ecco, io credo che sia questo l’esempio di cosa si debba intendere quando si parla (troppo spesso a sproposito) di attualizzare il melodramma. Se il teatro d’opera può parlarci di noi, di noi uomini e donne di oggi, non è detto che debba farlo per forza in modo sguaiato. La pietanza è quella, tutto sta a mangiare con forchetta e coltello pulendosi la bocca prima di bere. Insomma, si possono mettere in scena le contraddizioni attuali dell’essere umano senza per forza ricorrere a facili espedienti: trine, merletti e capitelli sono figli di un tempo che fu, non vanno banditi, ma aggiornati. Questo spettacolo è eponimo della forza calma di un messaggio teatrale  netto, deciso ma pacato, che non richiede di alzare la voce a ogni costo o di battere i pugni sul tavolo (che poi, si sa, un pugno sbattuto sul tavolo non aggiunge forza al messaggio, al più dimostra l’insicurezza dell’interlocutore). E così, per l’ennesima volta, merito all’Opera di Roma che ha avuto il coraggio di portare in scena un dittico non facile, il cui esito – oggi più che mai – costituisce un manuale di sopravvivenza.