
Occhi avvinazzati, liquidi ma luminosi ed innocenti nel quadro di Eduard von Grützner (1846–1925)
Quel bambinone di Falstaff
Così il personaggio di Shakespeare e Verdi trascende i generi per farsi emblema di dolcezza ed ebbrezza
Sir John Falstaff è un ubriacone che passa le notti di taverna in taverna, millantando un passato glorioso quando la sua realtà è invece quella di essere un disperato senza un soldo in tasca, finito in compagnia di due malandati ubriaconi come lui. Gente ridotta ai margini, gente che si deve sempre inventare qualcosa per tirare a campare.
Lui è Sir, nel suo passato stava alla corte in compagnia del futuro re Enrico V, solo che poi tutti lo abbandonarono e lui rimase da solo, come un vecchio barbone a trascinarsi per la contea di Windsor. Falstaff è un uomo che vive alla luce della luna, fa parte di quella categoria, ed è il personaggio shakespeariano delle Allegre comari, poi trasportato in musica da Giuseppe Verdi e Arrigo Boito.
La gente per bene lo tratta come un clown, un buffone di cui ridere. Gliene dicono di tutti i colori: otre sudicio e obeso, mostro, re delle pance, vorace balena… In un’epoca di body shaming Falstaff rappresenta il bersaglio di una derisione impietosa. Lui è extra-size, extra-large. Cioè è grasso, è oltre. Non lo puoi contenere, non lo puoi controllare, non lo puoi limitare dentro i confini della morale. Droghe? Le avrà provate tutte e così infatti Gus Van Sant in Belli e dannati lo trasforma nel personaggio di Bob Pigeon, una trasposizione di Falstaff come figura paterna e carismatica per un gruppo di giovani senzatetto. Gus Van Sant ha voluto creare un moderno “dramma elisabettiano”, fondendo Shakespeare, realismo queer e poesia visiva adattata alla scena urbana americana degli anni 90 (nel film la marca visibile sulle etichette delle bottiglie di birra è, non a caso, “Falstaff”…).
Le donne attorno al vecchio John Falstaff sono ciniche, calcolatrici, spietate. Vogliono divertirsi e lo fanno mentre lui, pur di raccattare qualche soldo, ne corteggia un paio mandando a entrambe un’identica lettera d’amore: “Amor t’offro, amor bramo, non domandar perché ma dimmi t’amo”. Insomma, non è uno che la tira per le lunghe perché a Falstaff interessa arrivare alla borsa, cioè ai soldi di quelle donne. Ma sotto sotto, al di là dei soldi c’è in lui il gusto di corteggiarle per sentirsi ancora il Don Giovanni che forse è stato. Non ha perso il vizio, non potrà mai perderlo, la sua filosofia è: “Chi segue vocazion non pecca!”. Sir John Falstaff non è più quel Don Giovanni con cui condivide anche il nome (Sir John-Don Giovanni…), perché se Don Giovanni non teme di guardare in faccia la morte, Falstaff invece grida a gran voce “mi pento!” pur di salvare la pelle.
Sir John si accontenta di sbottonarsi al sole godendosi un buon bicchiere di vino: è un uomo estremamente malinconico e allo stesso tempo sa essere arguto ed ironico, incapace di rinunciare alle tentazioni che la vita gli mette di fronte.
Falstaff è vecchio, come lo era Verdi stesso quando scrisse l’opera, aveva 80 anni. Sentiva che la morte si avvicinava? Può essere. E come reagisce Verdi alla morte? Con una bella risata a conclusione di un’opera che scombina tutte le carte in tavola. Uno si immagina che, arrivato a quell’età, celeberrimo e ricchissimo, Verdi si apprestasse a scrivere qualcosa che andasse sul sicuro e segnasse un sigillo trionfale. Invece Falstaff, per il pubblico della Scala fu come un ice-bucket. Innanzitutto, non c’è nessun Preludio e nessuna Overture che faccia da introduzione, ormai Verdi ha capito che non è più necessario, è una tradizione che si può lasciar perdere. Puccini seguirà questa linea: qualche battuta e poi si attacca subito con l’azione scenica. Action!… Si sente che il cinema sta arrivando.
Poi Verdi non mette nessuna vera e propria Aria in cui, come al solito, la storia si ferma e si aspetta l’applauso del pubblico per continuare. Il pubblico non sa quando deve applaudire perché il ritmo va avanti e quando finisce una cosa ecco che subito ne inizia un’altra, le scene fluiscono, come una pellicola che gira, la musica introduce e sfuma, ti trasporta da una sensazione ad un’altra, i personaggi entrano ed escono in modo fluido. Tutto il contrario della grande tradizione verdiana con baritoni e soprani che si piantano a declamare al pubblico il loro stato d’animo e i loro tormenti. Qui invece tutto è frizzante e leggero.
Falstaff è un uomo che non si è mai sposato, non ha figli e non ha di questi problemi. Ecco ancora un’altra affinità con Don Giovanni e mi fa pensare anche al protagonista del film Toro scatenato di Martin Scorsese, che alla fine della sua carriera di pugile, si trova ingrassato e quasi irriconoscibile a raccontare barzellette in un cabaret. Il film di Scorsese è basato sulla vera storia del pugile Giuseppe “Jake” LaMotta, campione mondiale dei pesi medi, noto tanto per la sua potenza sul ring quanto per il suo carattere autodistruttivo nella vita privata. Ecco, Falstaff è un po’ come lui, un ex di cui nessuno magari sa nulla e se lo trova lì davanti, in quel minuscolo cabaret davanti ad un misero microfono, con uno smoking messo male e l’alito pesante. Nessuno sa chi sia stato veramente quell’uomo, ma tutti sono pronti a sentenziare e deriderlo.
Falstaff ovviamente è un tipo simpatico, che fa molto ridere e la gente ha bisogno di lui, anche se lo tratta come un clown. No Falstaff, no party! Giuseppe Battiston con Andrea De Rosa ne fecero uno spettacolo a teatro una decina di anni fa, e lo stesso Battiston interpretò un monologo su Orson Welles che, non a caso, portò al cinema questo personaggio con cui evidentemente si identificava.
Ma proviamo a guardarlo un po’ negli occhi quest’uomo. Proviamo a fare quello che ogni bravo attore deve fare… chi è? Cosa vuole e perché ci piace così tanto? Se lo guardiamo negli occhi, mi immagino che i suoi siano piccoli e furbi, attorno a delle guance grosse che un po’ li schiacciano. Sono occhi avvinazzati, liquidi ma luminosi ed innocenti. Perché Falstaff è un bambinone infine. Uno che non farebbe del male ad una mosca. Lui racconta di essere stato un valoroso guerriero, ma sono tutte balle… dice che in un combattimento erano in venti, in trenta attorno a lui… e che lui li ha sconfitti tutti valorosamente, uno ad uno. Ma chi ha visto veramente come è andata, sa che Falstaff si era spaventato a morte, nascondendosi dove meglio poteva per salvare la pelle e non prenderle. Falstaff è un furbacchione di cui non ti puoi fidare, ma allo stesso tempo è l’unico di cui ti puoi fidare veramente, l’unico che sarebbe pronto a buttarsi nel fuoco perché conosce il valore dell’amicizia. Questo è forse il suo unico credo. Non la famiglia, non il denaro, non l’amore, non la spiritualità. L’amicizia. Ed è quanto di più laico e moderno ci sia. Quella forza che ti spinge a prendere la macchina e farti trecento chilometri pur di salutare una persona, e starle vicino, anche solo per pochi minuti. Quella forza che ti spinge a non aspettarti nulla in cambio, che vale più di tutto perché non ha prezzo. Quella forza che ti porta ad afferrare e scuotere forte qualcuno per risvegliarlo come solo un amico può permettersi. Quella forza che ti fa accettare di essere messo all’angolo da un amico, appunto, che si prende il tempo e il coraggio di farlo. Per cosa? Per te, per il tuo bene.
Falstaff finisce da solo, senza un tetto, senza un amico, senza una donna, senza onori. Ci emoziona perché non nasconde la sua miseria, le sue paure: si mostra vulnerabile e questo lo rende umano e alla fine gli vuoi bene.
In Shakespeare il principe Hal, destinato a diventare Enrico V, è il giovanotto a cui Falstaff ha dato tutto, ma che infine pensa solo al suo tornaconto e lo ripudia pubblicamente: “Non ti conosco, vecchio”. E’ una scena molto amara: Falstaff viene cacciato e ridotto alla miseria. Morirà poi fuori scena, secondo la testimonianza della locandiera Quickly che, in modo semplice e toccante, ci racconta che “è morto come un bambino: tra le lenzuola. Si metteva il dito tra le labbra, come uno che dice ‘State zitti, non fate rumore, lasciatemi dormire un po’”.
Per me è l’emblema della dolcezza umana, della nostra solitudine di esseri destinati a scorrere in un tempo finito eppure colmo di ebbrezza. Falstaff ama le cose in ebollizione, è lì che si trova la vita. Non si dà mai per vinto. Amiamo Falstaff perché ci sa entusiasmare, non tira mai il freno a mano: è un tifoso della vita.
Falstaff è la comicità goffa di Oliver Hardy, è Renzo Arbore con la baldoria elegante della ciurma di Quelli della notte, è il vitellone malinconico di Alberto Sordi, il cialtrone adorabile in bilico tra il ridicolo e la tenerezza di Christian de Sica, il notturno melodico di Tom Waits con la sua voce cavernosa.
Ma siccome Falstaff è universale, di certo può essere anche una donna. Una di quelle donne carismatiche e dal grande spirito, spesso un po’ fuori dalle righe, amanti della vita e dei piaceri, ironiche, talvolta buffe, capaci di sfidare le convenzioni sociali del loro tempo, con un lato malinconico e complesso sotto la superficie. Donne irresistibili per il loro fascino. Anna Magnani, Moira Orfei, Queen Latifah, Marisa Laurito: donne forti, eleganti, sexy, ironiche, poliedriche, istrioniche, esattamente il tipo di donna che non chiede il permesso di esistere.
Verdi con la sua scrittura musicale e Boito con il suo raffinato talento letterario sono stati capaci di regalarci un capolavoro che illumina la nostra umanità con questa creatura che abbraccia tanti di noi e che affonda le sue radici nel mondo latino, Plauto e la commedia dell’arte.
Falstaff è il bicchiere della staffa, è il vizio a cui non si sa resistere, è il Patatrac! che accompagna ogni sconfitta da cui ci si deve sempre rialzare cercando di farlo senza prendersi troppo sul serio. Ridere di noi stessi, delle nostre fragilità, della nostra inconcludente bellezza. Ed è così che termina quest’opera perennemente in corsa: taglia il traguardo con una scoppiettante Fuga finale dove un coro di voci ci ricorda che “tutto nel mondo è burla”: sta a noi prenderla come una tragedia o una commedia. Per una volta, questa sera, non muore nessuno, siamo salvi, possiamo godere e ridere “la risata final”.