
Un momento dell’opera in scena al Teatro Costanzi (foto Fabrizio Sansoni-Teatro dell’Opera di Roma)
A roma e a Napoli
Sguardi sulla maternità in "Adriana mater" e "Picture a day like this"
Nelle opere di Kajja Saariaho e George Benjamin, in scena al Teatro dell'Opera e al San Carlo di Napoli, due eroine esprimono ciò che universalmente una madre rappresenta. Entrambi i lavori, diversi e ugualmente potenti, dimostrano quanto la musica contemporanea possa chiarire i tempi che si vivono
Il tema della maternità unisce idealmente Roma e Napoli. Al Teatro dell’Opera è da pochi giorni andata in scena la prima italiana di “Adriana Mater” (2006) della compositrice finlandese Kaija Saariaho su libretto (meraviglioso) di Amin Maalouf. Al San Carlo, invece, sta per debuttare in Italia “Picture a day like this” (2023) composta da George Benjamin su libretto di Martin Crimp, in scena da venerdì 24.
Non è certo un tema nuovo al melodramma: la maternità è stata cantata su diversi palchi fissando immagini di donne provate dal dolore, dal coraggio e dal tradimento. Cio CioSan e Suor Angelica sono due madri pucciniane a cui è stato tolto un figlio: la prima raggirata da un vile tenente della marina americana che intende riprendersi il frutto di un rapporto nato e cresciuto sull’inganno; Suor Angelica, invece, vinta dall’ipocrisia di una famiglia aristocratica che non le perdonò il peccato d’amore. C’è la maternità perversa nell’“Elektra” di Strauss o quella popolare di Lucia in “Cavalleria rusticana”. Il ventaglio è ampio e per ciascun personaggio i risvolti psicologici e musicali meriterebbero molto più spazio.
Le partiture di Saariaho e di Benjamin guardano alla maternità da due punti di vista diversi. La finlandese fissa in musica il dolore carnale e psicologico, indagando fino a che punto possa arrivare il perdono, quanto la violenza possa essere ereditaria e cosa occorra veramente per attraversare il dolore e la menzogna. L’opera di Benjamin si sposta invece su un livello fiabesco e onirico: una giovane donna perde suo figlio e l’unico modo per riportarlo in vita è trovare una persona davvero felice e staccarle un bottone dalla camicia. In questa spasmodica ricerca incrocia molte persone, ma nessuna è veramente felice, sino a giungere in una sorta di Eden dove appare Zabelle, che sembra un riflesso della donna. Forse la felicità è qualcosa da cercare dentro di sé, nelle circostanze della vita. Entrambe le eroine delineano ciò che è universalmente una madre: un complesso di vita, coraggio, responsabilità, capacità di fare silenzio ma anche di alzare la voce. Soprattutto, pongono domande sulla condizione umana: cosa significa dare la vita per un altro? E’ possibile sperare oltre ogni speranza? Che cosa soddisfa il desiderio di verità?
Tutte queste suggestioni arrivano condensate in due partiture del XXI secolo musicalmente agli opposti ma ugualmente preziose. La scrittura basata su microelementi di Saariaho propone timbri sospesi, armonie iridescenti e silenzi carichi di tensione che trasformano l’orchestra in personaggio e il coro amplificato in un’eco dell’antico coro greco. La regia di Peter Sellars è minimale, quasi una forma concerto che vede l’orchestra sul palco e i protagonisti muoversi su due pedane sospese sulla buca dell’orchestra. Sullo sfondo una serie di luci neon che cambiano colore accentuando situazioni e stati d’animo.
Quella di Benjamin è una tessitura più netta, cristallina e, diremmo, più cameristica. Entrambi i lavori funzionano a meraviglia, mostrano quanto la musica contemporanea possa chiarire i tempi che si vivono e non essere solo sinonimo di astruso. Lode al Teatro dell’Opera di Roma e al San Carlo di Napoli che rischiano e offrono al pubblico nuovi orizzonti sonori e musicali, ma soprattutto la possibilità di commuoversi quando Adriana urla al figlio, in una sorta di declamato sempre “in collisione” con gli strati sonori orchestrali: “Quest’uomo meritava di morire, ma tu, figlio mio, non meritavi di ucciderlo”.