Il Foglio Weekend

I treni del desiderio: dal nuovo Freccia francese all'antico Orient Express

Michele Masneri

Modernissimi o rétro, lenti o supersonici, sono il mezzo più ambito. Possono essere un incubo di calca e ritardi oppure un confortevole viaggio nel passato e fuori dalla realtà: magari anche rimanendo fermi

Ah, i treni. Non so se sia l’algoritmo impazzito che siccome sa che amo i mezzi di trasporto mi rimpinza di notizie ferroviarie, o forse sono i post quotidiani dei ritardi sull’alta velocità, ma a me sembra che si parli solo di binari e locomotive (a parte la flotilla). Ecco i nuovi regionali capaci di viaggiare a duecento all’ora  (ma dove dobbiamo andare a duecento all’ora, da Roma a Ladispoli? In un giro di Rolex? Mah). Ecco il nuovo Freccia francese! Ecco poi le stazioni, prese d’assalto dai manifestanti, e i treni bloccati dagli scioperi. 

 
Insomma, il treno pare sempre più centrale nelle nostre vite.  Il treno può essere un incubo di ritardi e calche vocianti oppure una bolla di lusso e voluttà dove immergersi nella nostalgia del passato. Entrando nelle nostre stazioni incasinate   si possono talvolta ammirare dei vecchi convogli tirati a lucido, fermi per ragioni misteriose ma che misteriose non sono. Per esempio il leggendario Settebello, con livrea bolidista disegnata da Gio Ponti; precursore dei vari Freccia, collegava Roma e Milano negli anni del boom quando il predominio dell’aereo era assoluto, ma lì in più c’era la socializzazione, specialmente nel vagone ristorante e nel salottino panoramico in testa, come spiegava bene l’amica prostituta (oggi diremmo sex worker) della protagonista Franca Valeri di “Parigi o cara”, leggendaria pellicola di Vittorio Caprioli, dove appunto la sex worker investiva una grossa cifra nel biglietto, ma a tavola aveva la possibilità di abbordare qualche bell’industriale, non come i managerini di oggi che se non sono in una call al massimo leggono i manuali di self help (“cambia la tua mente”) costretti a scegliere tra lo snack dolce o salato (ma sul tema dell’alimentazione ferroviaria ci torneremo tra poco). 

 
Oggi questi treni rétro sono richiestissimi  per eventi e feste mobili come il salone del Design l’anno scorso quando Prada invitava a calicini ferroviari su una versione corta del Settebello parcheggiato in Centrale a Milano. Ma ancora più nostalgica  è la mania dell’Orient Express: a un certo punto si vede che tutti vogliono sentirsi un po’ Poirot, ed ecco che le rotte italiche anche meno plausibili sono invase da convogli da cui discendono facchini in alta uniforme, come in un film di Wes Anderson ma con lo zampino della Irpinia Film commission. Ci sono infatti ben due Orient Express oggi in circolazione, e due società diverse: una la Belmond colosso alberghiero di fascia alta, di proprietà Lvmh, che gestisce il vecchio Orient Express, quello insomma che faceva Parigi-Istanbul; l’altro è il Dolce Vita Orient Express, che mette insieme Fs e l’imprenditore romano Paolo Barletta, con destinazioni che vanno da Portofino a Siena ai Sassi di Matera, al Montalcino fino a  Catania. Certo, chissà cosa avrebbero detto Poirot o Agatha Christie trovandosi improvvisamente tra i sassi di Matera, però oggi   l’idea del treno “lento”, tra i borghi naturalmente “più belli d’Italia”, è irresistibile. Dal delitto sotto il sole a don  Matteo. E non ci sono solo i wagon lits, è tutto un fiorire di treni antichi (come i grani): ecco il “Trifula Express”, con partenza da Biella e destinazione Montiglio Monferrato in occasione della fiera del tartufo, atteso per domenica 12 ottobre; più a sud c’è l’Irpinia Express (per appassionati demitiani, o per chi volesse scoprire Ariano Irpino, località che ha dato i natali a Francesca Albanese); e ancora l’Archeotreno campano; più su a Brescia il Sebino Express scorre lento sul lago d’Iseo (mentre sempre nel bresciano ci sarà il primo treno equipaggiato a idrogeno, è un vanto di Salvini). La Fondazione Fs Italiane col suo progetto “Binari senza tempo”  viaggia, è il caso di dirlo, a tutto vapore. Mentre poi chi volesse il brivido del convoglio d’altri tempi  però restando fermo, può  scendere direttamente all’hotel Orient Express, ex Minerva, vicino al Pantheon, a Roma, dove le stanze sono decorate come grandi cabine tra ottoni e mogani e non si rischiano neanche ritardi (parafrasando Jep Gambardella: i nostri treni sono i migliori perché non vanno da nessuna parte).  

 

Se invece si vuole viaggiare  velocissimi e modernissimi, Trenitalia annuncia il nuovo Frecciarossa 1000, con alcuni miglioramenti, tra cui più ampie cappelliere  e  tavolini di executive (anche su questo torneremo in seguito) ma la notizia più rilevante è che tra un po’ finirà il duopolio dell’alta velocità tra Roma e Milano, quel sistema di trasporto che in questi anni ha cambiato le nostre vite,  e che ha accelerato la rinascita della capitalina lombarda (favorendo anche una certa migrazione di romani a Milano). E’ stato annunciato infatti che dal 2027 ci sarà un terzo gestore   e  saranno i Tgv, i treni a grande vitesse delle ferrovie francesi. Si spezza così il reame bipartito, da una parte il vecchio operatore statale con le sue Frecce, dall’altra il rosso Italo privato voluto da Montezemolo. 

 

E vedremo come sarà questo terzo incomodo, se oltre ai vagoni a due piani, che lo caratterizzano, introdurrà nuovi usi e costumi come i suoi predecesssori. Vi ricordate per esempio i primi pendolini, dove fino a qualche anno fa uno dei benefit ambitissimi della prima classe (quando si chiamava ancora così) erano i quotidiani cartacei gratis, lusso sibaritico per l’epoca? Se venissero offerti oggi probabilmente sarebbe un gesto catalogato  come microaggressione. 

 

E poi: che alternativa ci sarà allo snack dolce o salato? Ultimamente Trenitalia ha preso la brutta abitudine di distribuire cibo plasticato a sua volta tombato in  scatole di cartone rosso (naturalmente chiamate “le box”,  nella neolingua ferroviaria dei frequentissimi annunci). Cosa si mangerà invece sui Tgv francesi? Specialmente  nell’equivalente della classe executive? Che poi questa executive, parliamone. La poltrona di executive è stata studiata evidentemente da qualcuno che ha visto dei film sui ricchi di molti anni fa. La poltrona executive non ha tavolino, ma solo una mensolina retrattile dove non sta neanche un iPhone 17. Gli unici vantaggi dell’executive, oltre al biglietto magari recante “carrozza 1-posto 1” (che anche ad avere il feticismo per queste cose, fatto una volta basta) è lo svaccarsi in quel tronetto di pelle umana dal design che la fa assomigliare alla  poltrona di un dentista pazzo, o a quegli aerei di stato di sovrani di  monarchie africane sempre a rischio di golpe militare tipo Bokassa. Poi sul menu spiegazzato e unto che non viene mai cambiato puoi ordinare cibo e vino a volontà, questo è un altro vantaggio oltre alla deferenza degli addetti, che poi si sfogheranno giustamente sui poveracci della carrozza standard. L’addetto-igienista dentale ti apparecchia la minuscola mensolina con una tovaglia di vera stoffa, ci stipa  tipo tetris piatti, posate, bicchieri, e tu a quel punto non hai più neanche un centimetro non diremo per un computer ma anche per il telefono e nemmeno per le mani che potrai solo lasciar cadere a corpo morto. L’executive evidentemente prevede ricchi che non lavorino, e che arrivino da digiuni intermittenti di 30 ore.

 

Il lunghissimo rito apparecchiatura-consumo-sparecchiatura dura più dell’estrazione del dente del giudizio e  imita l’esperienza delle prime classi aeree (dove però si sa che il rimpinzarti di cibo e alcol è un modo per tener buoni i passeggeri nelle lunghe ore di volo). Ma in aereo puoi a quel punto almeno abbioccarti, in pigiama, o almeno scalzo, perché hai la tua cabinetta; su questi tronetti invece passa chiunque e ti guarda, per cui devi mantenere anche un contegno, e tu rimani lì incastrato con la mensolina, come se il dentista pazzo fosse scappato abbandonandoti. Al massimo puoi farti dei selfie da mettere su Instagram per far capire che sei in executive (forse l’unico vero vantaggio dell’executive).  Ma forse gli ideologi dell’executive pensavano che solo i ricchi in vacanza, specialmente esteri, la scegliessero, invece per qualche strano motivo in executive non incontri molti stranieri, sono piuttosto quasi sempre italiani, politici, imprenditori, selfisti anonimi. Gli stranieri che sono più sgamati non ritengono le 3 ore di viaggio valevoli della spesa di 250 euro. 

 

E qui entriamo nell’altro grande problema: i turisti stranieri, e i loro enormi trolley. E’ un guaio che non riguarda solo le prestigiose Frecce. Anche i regionali. Anche su tratte molto turistiche come la Roma-Pisa.  Linea molto interessante a livello sociologico peraltro: ci sono i coatti che scendono a Ladispoli, le borghesie con le suonerie a manetta a Santa Marinella, le friulane di  Capalbio scalo. Per un po’ ci fu un Frecciarossa che faceva Roma Capalbio e forse Forte dei Marmi, dove praticamente c’erano solo camicie di lino e quotidiani, qui sì, ancora cartacei; la cosa più vicina al treno del Senato, un Orient Express a partecipazione statale, che Carlo Scognamiglio fece ripristinare quando fu seconda carica della repubblica. Ma tornando ai regionali tosco-laziali,  sono perennemente intasati di turisti con le loro valigione, che però non entrano assolutamente nelle cappelliere, disegnate da qualche sadico che le ha ideate alte  tipo dieci centimetri per cui non entra neanche una sacca da palestra. Così il turista comincia a disseminare i corridoi coi suoi valigioni, e chi deve scendere o solamente passare pare Tamberi il saltatore olimpico. Questo succede anche sull’alta velocità, dove le mensole e le rastrelliere (che talvolta gli annunci, in neolingua ferroviaria vagamente dannunziana, chiamano “bagagliere di vestibolo”) ci sono ma  sono intasate. Lì il problema è un altro. Il turista, anche in business, che magari è un manager importantissimo che gestisce diecimila dipendenti nel lontano Ohio, o un neurochirurgo che salva vite laggiù a Houston, quando giunge sul treno italiano diventa improvvisamente scemo. Arriva, in braghe corte e canotta, sempre in gruppo (il turista americano non viaggia mai da solo), e col gruppo di cui è il leader (c’è sempre il leader), di solito sudato e incazzato, si siede e indica alla comitiva i posti dove sedersi, dopo aver imballato metri e metri di cappelliere coi suddetti trolley. Poi arrivi tu che hai il loro posto, cioè sono loro che si sono sbagliati (di posto, di vagone, di giorno, di anno) e mugugnando smontano tutto l’accrocco e si dirigono verso altri posti. Non chiedono mai scusa e non ti ringraziano mai, forse pensando – non a torto – che dietro ogni italiano si celi un capostazione anzi “train manager” come vengono chiamati nella neolingua, e che lo Stato ci dia un reddito di cittadinanza per aiutare gli americani sui treni (potrebbe essere un’idea per il campo largo).

 

Il problema dei passeggeri seduti al posto sbagliato sta diventando sempre più frequente soprattutto su Italo; “ma come, non ha ricevuto la mail?”, ti chiede il controllore anzi train manager, quando trovi il turista estero al tuo posto, e però stavolta ha il posto giusto. E  pure tu. E ti accorgi che tutto il vagone ha lo stesso problema. Dopo un po’ capisci: cambiano il tipo di treno improvvisamente, più corto o più lungo, e dunque salta la numerazione, e tu che avevi il posto 6 mettiamo sulla carrozza 8 ora hai il 21 sulla carrozza 5. Spesso però la mail di avvertenza non arriva, o va in spam, o non hai avuto tempo di guardarla. Il turista estero poi non la riceverà mai perché ha prenotato sei mesi fa tramite l’agenzia di Houston e dunque tu dovrai spiegargli gentilmente tutto in inglese, mentre lui ti guarda sospettoso, che magari sei un italiano che vorrebbe rubargli il trolley. Che poi non si sa cosa ci terranno, in questi benedetti trolley: se stanno sempre in pantaloncini e canottiera, anche avendo portato 20 pantaloncini e 20 canottiere, che se ne faranno di tutto quello spazio? Saranno degli  elegantoni dalla doppia personalità che appena arrivano in albergo si mettono in smoking? O terranno le valigie vuote per riempirle di parmesan e prosciutto e altri beni ormai di lusso anche causa dazi trumpiani? 

 

Forse esercitano semplicemente un loro diritto. Nell’epoca in cui tutto aumenta di prezzo, in cui l’oro è alle stelle, la spesa aumenta, gli abbonamenti Netflix e Amazon pure, il trolley è l’ultima oasi di libertà. E’ gratis. Se Ryanair tra un po’ introdurrà i posti in piedi, sui treni potresti portarti invece anche 25 valigie senza pagare. Col risultato però che i passeggeri ne rimangono schiacciati. A febbraio 2024 Trenitalia tentò una serie di draconiane restrizioni: massimo due bagagli a testa, e addirittura “la somma delle dimensioni totali dei bagagli non potrà superare i 161 cm, ruote e manici compresi. Per i passeggeri di prima, business ed executive il limite massimo è di 183 cm”. Per chi non si adeguava alle nuove norme era prevista una multa addirittura di 50 euro. I passeggeri insorsero immediatamente, e non se ne fece niente, e così anche oggi vige il libero trolley in libero stato (in realtà su Italo in classe Smart, cioè economica, non sarebbero, dice il sito, accettati bagagli superiori a 75x53x30 cm, ma avete mai visto qualcuno misurarli?).

 

Comunque i trolley adesso fanno notizia per altri motivi. Li rubano. E’ sempre più frequente infatti che i passeggeri ne vengano alleggeriti; la tecnica è ingegnosa. Dei finti viaggiatori salgono in stazioni che ne prevedono una subito dopo (a Milano Centrale per scendere a Rogoredo, a Roma Termini per Tiburtina). Hanno con sé finti bagagli, vuoti, che fingono di sistemare sulle cappelliere, e intanto vi fregano il vostro. Così sui treni adesso non è difficile trovare viaggiatori che legano con speciali lucchetti i loro trolley, noi si preferisce metterli in alto, tenendoli costantemente d’occhio, concentrandoci con lo sguardo come invasati. Spesso però arriva qualcuno che sposta il nostro bagaglio per metterci il suo e ci costringe così a terribili torcicollo per quella sorveglianza. Ma i furti dilagano: Gabriella Golia ha lanciato un appello sui social: “sono sconvolta. Sul Frecciarossa Napoli–Milano, all’altezza di Roma, io e mio marito siamo stati derubati… sotto i nostri occhi. Io credo che sia arrivato il momento che ci siano forze dell’ordine presenti su questi treni, perché viaggiare così significa sentirsi completamente indifesi”. Ecco, magari la storica annunciatrice di Italia 1 ha un po’ esagerato, ma il bisogno securitario arriva anche sui treni. Del resto treni e stazioni in questi giorni sono i luoghi più coinvolti da scioperi e manifestazioni. 

 

E anche le stazioni, come i treni, si stanno evolvendo. Milano Centrale finalmente ha smantellato gli odiosi tapis roulant che immettevano a lentezza esasperante in inutili e tristi ammezzati dove qualcuno aveva pensato che ci saremmo tutti scatenati nello shopping. Proprio come negli aeroporti. Con la differenza che in aeroporto uno dopo aver fatto il check in deve per forza ammazzare il tempo. Per fortuna poi è arrivata la gestione Salvini e tutti i treni sono in ritardo di almeno mezz’ora, così uno (se il ritardo è già in partenza) può farlo, questo shopping, anche se c’è un’attività che preferirebbe, ancorché gratis: bestemmiare. Però in piedi: a differenza degli aeroporti sono sparite infatti le sale d’aspetto: se vuoi attendere e non sei socio di qualche programma fedeltà del duopolio non puoi che sederti per terra. Mentre le stazioni sono piene di anfratti inutilizzati, come dimostrava Prada che per traghettare i suoi ospiti sul Settebello corto li faceva transitare nelle vecchie sale reali, dove i Savoia arrivavano e partivano. O come dimostra Mario Martone che nel film “Fuori” ha girato in aree sconosciute e bellissime della stazione Termini. La sinistra a corto di idee potrebbe ricominciare per esempio da qui, dal riaprire degli spazi non privati in cui un pòro cristo si può sedere. Anche perché poi le lounge a pagamento sono tristissime. Imitazioni (di nuovo) di luoghi già tetri come le lounge degli aeroporti, ma senza neanche quell’eccitazione che c’è negli aeroporti: e con vista sui binari, non sul cielo, e sui tabelloni (dei ritardi). Spesso mimetizzate tra biglietterie e bagni, o inerpicate su scaloni, fai la fila per accreditarti, e poi sei ammesso in un regno tra la finta pelle e la plastica sbreccata dei tavolini, la Coca-cola calda nei bicchieri di carta; al massimo avrai delle brioche (ovviamente surgelate) che consumerai sul tavolino già sbriciolato da altri, che nessuno pulisce. Insomma, un luogo che dovresti essere pagato tu per sostarvi e non viceversa. 

 

Chissà adesso coi francesi che succederà. Chissà anche che approccio applicheranno ad altri usi invalsi negli ultimi anni, come gli ululati scomposti e continui dei vivavoce, battaglia persa di chi nei treni vorrebbe leggere o semplicemente dormire, ed è invece ostaggio dell’anziano col telefonino nel pratico fodero a portafoglietto di pelle marrone che guarda reel con volume a 3000 decibel, o del presunto manager che fa le sue call urlando “scusa, sono in treno” (in questo la tratta forse più micidiale è la Milano-Torino, scambiata per una sala riunioni dai bancari pendolari). I francesi, popolo più rivoluzionario di noi, avranno il coraggio di vietare i rumori molesti? Qualcosa si sta muovendo in Europa: a Londra nella metropolitana cominciano a raccomandare l’uso degli auricolari. E proprio in Francia, alla stazione di Nantes, il mese scorso un tizio è stato multato per aver fatto una chiamata in vivavoce  (non è chiaro se in treno o addirittura fuori dal treno). La multa, comunica l’SNCF, le ferrovie francesi, era di 150 euro, ma è salita a 200 perché il molesto telefonista si è rifiutato di abbassare il volume. Si vorrebbe conoscere l’eroica Polfer transalpina che ha comminato la sanzione, e forse se puntasse su vagoni interamente silenziosi la freccia francese potrebbe  conquistarsi velocemente una importante fetta di mercato italiana. Noi ci si andrebbe subito: ma vuoi vedere che ci ritroveremmo come al solito  in quattro gatti, saremmo la solita minoranza di bizzarri soggettoni, quelli che difendono l’Ucraina e fanno la differenziata, quelli che pagano esoticamente l’Irpef? Del resto i vagoni “silenzio” sulle Frecce, che in un mondo giusto dovrebbero essere stra-prenotati, spesso sono invece vuoti. Con questo terzo polo (del silenzio) non vinceremo mai.

  • Michele Masneri
  • Michele Masneri (1974) è nato a Brescia e vive prevalentemente a Roma. Scrive di cultura, design e altro sul Foglio. I suoi ultimi libri sono “Steve Jobs non abita più qui”, una raccolta di reportage dalla Silicon Valley e dalla California nell’èra Trump (Adelphi, 2020) e il saggio-biografia “Stile Alberto”, attorno alla figura di Alberto Arbasino, per Quodlibet (2021).