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a teatro
Isterico o sognante, tutto il romanticismo di Bellini in scena a casa sua
Nel giorno della morte del compositore, Catania celebra il suo “Cigno” con Il pirata, prima grande opera romantica italiana, eseguita con gusto nonostante i limiti vocali del tenore e una messa in scena essenziale. La direzione appassionata di Marco Alibrando e le belle voci femminili, ma l’afa del teatro resta l’unico vero ostacolo
A Catania c’è la civile usanza, ogni 23 settembre, giorno della morte di Vincenzo Bellini, di metterne in scena un’opera. I catanesi sono giustamente orgogliosi del loro Cigno, e lo celebrano nel modo migliore: eseguendolo. Quest’anno poi toccava al Pirata, 1827, prima vera, grande opera romantica italiana, che si ascolta sempre troppo poco. Il problema di questo titolo è ben noto: il suo protagonista. Bellini disponeva di Giovanni Battista Rubini, probabilmente il più importante tenore della storia dell’opera che, grazie a una tecnica del suono misto in acuto, il famigerato falsettone, riusciva a cantare con morbidezza su tessiture acutissime dove i non falsettanti si strozzano. A Catania c’era Celso Albelo, che si sistema un po’ la parte, taglia di qua, aggiusta di là, e tutto sommato non fa male. Ma il quid Rubini, quel canto araldico e astrale, dolcissimo e sognante che dava alle “cantilene” belliniane la loro suggestione ipnotica, non si è mai sentito.
Al suo fianco, Irina Lungu dimentica distrattamente un po’ di recitativi, ma canta assai bene le arie, con fluidi pianissimi e anche la giusta misura fra la compostezza classica e gli isterismi da pazzia romantica. Quindi anche a casa del suo autore si perpetua l’equivoco del Pirata come “opera da primadonna” che lo affligge fin dalla leggendaria madre di tutte le riesumazioni, con la Callas alla Scala. Anche Ernesto non sarebbe un baritono, categoria vocale che nel 1827 non esisteva, ma un basso cantante: Franco Vassallo è però molto autorevole e risolve anche le agilità. Fra i comprimari, segnalo un giovin tenore, Ivan Tanushi. Sul podio, molto bene l’altrettanto giovine Marco Alibrando. Il pirata è forse più difficile e di certo più pericoloso che Elektra, ma finalmente abbiamo un maestro che questa musica, insidiosa per soverchia semplicità, sa dirigerla perché la ama. L’Orchestra del Bellini dispone di un primo flauto eccezionale.
Spettacolo “one shot”, recita secca e via, montato con pochissimi mezzi ma gusto ineccepibile dal conte Renato Bonajuto: tradizione in purezza, ma non ridicola. E usare l’intelligenza artificiale, tipo Foglio-bis, per rievocare le scene di Sanquirico della prima è una buona idea. Anche i costumi di Marina Fracasso sono belli, però le crinoline si confermano pericolose: la seconda donna è inciampata nella sua e ha dovuto uscire di scena gattonando. Insomma, l’unico problema è che il Bellini, inteso come teatro, non ha l’aria condizionata, quindi lo spettatore ci si sente come un arancino (qui rigorosamente maschile, con la “o” finale) immerso nell’olio bollente. Ma Il pirata val bene una sauna.