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In scena

L'infanzia terribile, la musica che sprofonda tra le ombre. Un “Giro di vite” esemplare a Roma

Alberto Mattioli

E' un monumento all’ambiguità, perfino più del romanzo breve di Henry James da cui è tratto. Nulla come la musica riesce a sprofondare l’ascoltatore fra le ombre e il mistero. E Britten lo fa attraverso il massimo rigore formale e un’economia di mezzi straordinaria

Più passa il tempo e più The Turn of the Screw di Benjamin Britten (1954) giganteggia come uno dei massimi capolavori di un secolo come il Novecento che pure ne è stato singolarmente prodigo. Adesso torna all’Opera di Roma in una produzione esemplare, accompagnata pure da un nuovo numero di Calibano, la raffinatissima, iperintellettuale rivista del teatro. Il giro di vite è un monumento all’ambiguità, perfino più del romanzo breve di Henry James da cui è tratto. I fantasmi che infestano la casa dove i bambini Miles e Flora sono affidati da uno zio disinteressato alle cure di una giovane istitutrice sono “veri” o proiezioni della psiche dei pargoli o della loro maestra? Cosa è successo davvero fra Miles e Quint, l’ex maggiordomo nel frattempo passato a miglior vita e adesso di ritorno come spettro? Cos’ha fatto di così terribile il pur angelico Miles per essere cacciato da scuola? Eccetera.

 

Il tema è quello di tutto il teatro di Britten, l’innocenza violata. Così le filastrocche infantili, i nursery rhymes, e le lezioni di latino si caricano di sinistre allusioni, come in certi Shakespeare o, mutatis mutandis, negli Agatha Christie più pieni di morti ammazzati in rima baciata, e la magione vittoriana con le governanti in crinolina e le cameriere in crestina nasconde cupi segreti. Finché, come dice il verso di Yeats citato da Quint, “The ceremony of innocence is drowned”, la cerimonia dell’innocenza è sommersa. Nulla come la musica riesce a descrivere l’ambiguità, a raccontare il non detto, a sprofondare l’ascoltatore fra le ombre e il mistero. E Britten lo fa attraverso il massimo rigore formale e un’economia di mezzi straordinaria. 

 

Lo spettacolo romano è un monumento al teatro anglosassone che, a ben pensarci, nell’estenuante attuale querelle des anciens et des modernes sulle regie d’opera sarebbe una benvenuta terza via fra il decorativismo inerte degli italiani tradizionalisti e la greve pesantezza del Regietheater alla tedesca. Deborah Warner “racconta” prima ancora di interpretare. Bastano una gran fiducia nel testo, delle scene spoglie ma benissimo illuminate, dei costumi storici per i personaggi vivi e contemporanei per i fantasmi, e tutto il resto lo fa la recitazione, una nota un gesto, con una precisione, una fantasia, una naturalezza straordinari e alla fine coinvolgenti. Infatti anche degli spettatori cinici come quelli romani, almeno quelli che venerdì non hanno preferito Sabbbaudia, sono rimasti affascinati dallo spettacolo.

 

Direzione puntualissima di Ben Glassberg, cui solo si chiederebbe più incisività nel finale, e grande prova delle prime parti dell’Orchestra, quindici in tutto, che hanno suonato splendidamente. Nella compagnia, da segnalare innanzitutto la bravura perfino inquietante dei due pupi, Zandy Hull, Miles (che alla prima assoluta fu interpretato da David Hemmings, poi Blow-Up e tutto il resto), e Cecily Balmforth, Flora. Lui è fortunato perché in altri e più civili secoli e stati, per esempio il Settecento e il Regno di Napoli, si sarebbero subito presi provvedimenti drastici per preservargli la sua graziosa vocetta. I “grandi” hanno voci piccole, specie l’Istitutrice di Anna Prohaska, ma cantano tutti bene e recitano da padreterni, come le gloriose Emma Bell (mrs Grose, la governante) e Christine Rice (miss Jessel, la fantasmessa). Del resto, con buona pace dei talebani della TUC (Tecnica Unica di Canto), Britten non richiede né gran volume né una tecnica belcantistica: Ian Bostridge non ha mai avuto né l’una né l’altra, ma resta un Quint eccellente, capace di dare ai melismi di “Miles!” tutta la pericolosa dolcezza di una seduzione omicida.