
FACCE DISPARI
Manuela Maddamma e la Roma incantata di fine Novecento
Dalla capitale misteriosa raccontata da Giorgio Vigolo e “Il segno del comando” al romanzo "L’affascino" della studiosa di filosofia rinascimentale: un viaggio tra rituali e tradizioni occulte, dove la città eterna continua a svelarsi come catalizzatore di energie e simboli nascosti. Magie, memorie e segreti tra storia ed esoterismo
C’è una Roma esoterica, celata agli sguardi, che si rivela solo a barlumi fra gli strati molteplici della sua storia: è quella che restituì nei racconti uno scrittore elegante e semidimenticato come Giorgio Vigolo; è quella rappresentata nell’indimenticabile sceneggiato televisivo del 1971 “Il segno del comando”, che dimostrò come persino ardue materie, se confezionate con perizia, possano sedurre un pubblico vasto anche nel tempo (c’è ancora chi rivede per l’ennesima volta quelle cinque puntate o chi le scopre adesso). È la Roma che ha appassionato Manuela Maddamma, studiosa di filosofia rinascimentale e del pensiero bruniano ma anche delle ricerche antropologiche di Ernesto de Martino. Nella città umbratile tra il Velabro e l’Arco di Giano, con un antefatto nel Salento delle tarantate, ha ambientato il suo recente romanzo “L’affascino”, edito da Fandango, collocando la vicenda tra il 1972 e il 1989. Chi ha vissuto nella capitale di quegli anni forse ricorderà di averne captato, tra gli echi quotidiani machiavellici o brutali, anche il riverbero superstite di fascinazioni riconducibili agli inizi di un secolo “oramai alla fine”, quando l’avevano animata i circoli kremmerziani, il Gruppo di Ur, i sodalizi neopitagorici.
Quali suggestioni offriva rispetto all’attuale la capitale di allora?
“Il segno del comando” o il thriller tv “Voci notturne” scritto da Pupi Avati riecheggiavano un’atmosfera che non aveva soffocato l’invisibile. Una città piena di enigmi da decifrare, quando non eravamo ancora assorbiti dagli smartphone e da un’interazione compressa nell’immediatezza. Provo alquanta nostalgia per le lettere che s’infilavano nella buca delle poste, per le telefonate interurbane col rotolino dei gettoni, io in vacanza a Tricase e il fidanzato a Roma. Provengo per madre da una famiglia trasteverina e per padre dal Salento, con una nonna lucana di Melfi.
I rituali magici di quei luoghi furono studiati da de Martino, scienziato atipico totalmente privo di pregiudizi circa la dimensione del mistero.
Fu anche molto profetico: “La terra del rimorso” è un libro di tremenda attualità sul mal di vivere, sull’immensa potenza del negativo quotidiano con cui ci confrontiamo tutti. Le sue ricerche nella sfera dell’irrazionale spiazzavano certa cultura positivista e meritano attenta rilettura.
Qual è il suo legame con le tradizioni magico-religiose lucane?
Sono parte viva dell’eredità famigliare. Crescendo a Roma, vi ho sovrapposto gli studi sul pensiero rinascimentale e gli interessi derivati da un incontro con un mentore cui devo molto: l’egittologo Boris de Rachewiltz, che mi aprì ad altre tradizioni e ad autori come Arturo Reghini e Giuliano Kremmerz.
Come conobbe de Rachewiltz?
Per il mio primo lavoro di editing, sul romanzo “L’occhio del faraone”. Era un personaggio che incuteva anche timore. Gli feci visita al castello di Brunnenburg: nell’ala luminosa del maniero abitava la moglie Mary, figlia di Ezra Pound; nell’ala d’ombra abitava lui, che si dedicava all’alta magia cerimoniale egizia. Una volta gli affidai un gatto certosino che non potevo portarmi in vacanza. Quando tornai lo trovai trasformato: gli occhi magnetici, il pelo più scintillante. Sembrava davvero un gatto egizio. Devo a de Rachewiltz anche la scoperta della Porta Magica di piazza Vittorio. All’epoca non era recintata, si poteva toccarla con la straniante sensazione di attraversarla per davvero. Roma offre diversi luoghi simili.
Un esempio?
L’obelisco egiziano di San Giovanni in Laterano: pesa 455 tonnellate ma è un catalizzatore di pura energia. Se lo fissi con intensità sembra trascendere la materia. Una visione che mi smarriva da bambina e mi smarrisce ancora.
Sua, nel 1999, è la prima traduzione integrale in italiano del trattato di mnemotecnica di Giordano Bruno “De umbris idearum”, per le edizioni Mimesis. Come s’avvicinò al filosofo?
Grazie a un libro che studiai all’università, “L’arte della memoria” di Francis Yates: il capitolo su Bruno non mi convinceva, così mi procurai il testo originale del “De umbris” in una edizione ottocentesca ed ebbi conferma che la studiosa inglese o non lo aveva letto tutto o non lo aveva digerito. Poi a Parigi conobbi Antoine Faivre, che teneva la cattedra di Storia dell’esoterismo occidentale alla Sorbona e fu direttore dell’École Pratique des Hautes Études: gli parlai del mio progetto bruniano e lo accettò con entusiasmo. Ora, trascorsi tanti anni, coltivo sempre un sogno: che un artista realizzi materialmente la macchina della memoria di Bruno. La ruota più grande avrebbe un diametro di sei metri. Sarebbe bello vederla esposta in un museo.
Perché la letteratura italiana non conta i grandi autori gotici di altre tradizioni?
Forse per il sole mediterraneo. Siamo lontani dai climi di Stoker, Meyrink, Le Fanu. Possiamo consolarci con alcuni capolavori poetici contemporanei, come i “Canti orfici” di Dino Campana e i “Canti barocchi” di Lucio Piccolo, dove la parola assume dimensioni magiche.
È cattolica?
Mi sono riavvicinata al cattolicesimo una decina d’anni fa, quando ho incontrato i carismatici della Comunità Maria nella chiesa di Sant’Angelo in Pescheria vicino al Teatro di Marcello. È stato un ritorno alla fede cristiana, come un’illuminazione. Nel mio romanzo ho dato corpo alla figura di un sacerdote esorcista che me la rappresenta.
Francesco Palmieri