
Majakovskij e Lili Brik (foto Olycom)
Il poema
I versi gelidi e taglienti di un Majakovskij d'amore, di dolore e d'abbandono
Einaudi punta a riposizionare lo sguardo che da sempre si getta sul poeta russo, e propone "Di questo", lungo poema d'amore figlio della cocente separazione dall'amata Lili Brik. Versi con cui aveva riempito il vuoto di quella lontananza, quando era "come un orso inferocito a morte"
Due opinioni d’autore che lo riguardano, nessuna lusinghiera. La prima è del severo e aristocratico Bunin. “Ieri ho preso parte all’incontro del Mercoledì”, scrive il nobel russo nel suo diario dei giorni maledetti, quelli della rivoluzione bolscevica, pubblicato su un periodico parigino nei primi anni Venti. “Molti i giovani presenti. Vladimir Majakovskij ha mantenuto un contegno abbastanza decente, benché non abbia fatto che ostentare la sua idiota sincerità di giudizio: indossava una morbida camicia senza cravatta e portava il colletto della giacca sollevato, come quei tipi che abitano in squallide camere d’albergo e la mattina, mal rasati, si incamminano verso il cesso”. Siamo di fronte – diciamo così – alla ricetta del ceffone alla Bunin: gran tratto a punta secca, rancore che balena e sarcasmo che traligna, entrambi nutriti dai foschi presentimenti per lo scenario che si stava delineando in Russia e dagli immotivati entusiasmi di qualcuno, per esempio proprio quel Vladimir Majakovskij lì, portatore di una lingua aliena e rozza, sempre troppo attento all’idea che offriva di sé, alla propria immagine ribalda e stradaiola, irreligiosa e rivoluzionaria – Majakovskij eroe dei primi poemi di Majakovskij, fondatore del LEF, Fronte di sinistra delle Arti. “Il suo verso è fatto per la strada, per essere urlato,” scriveva D.P. Mirskij nella “Storia della letteratura russa” sottolineandone “l’elemento nevrastenico” e celebrando il suo grande valore.
La seconda opinione la offriva, in forma di giudizio sintetico che non necessitava di ulteriori didascalie, il poeta Sergej Esenin. Di cui si racconta un fatterello interessante: strappava i libri di Majakovskij ogni volta che ne trovava in giro. Che immagine strepitosa! E che bello un mondo in cui i poeti si odiavano, si sfidavano a duello, si promettevano cazzotti! (Fine del piantino). Va detto che l’insofferenza eseniana era ricambiata, giacché Majakovskij considerava Esenin un “male lirico”, e chissà se necessario – insomma, due incompatibili in senso assoluto.
Ma ecco che, tra vecchie schermaglie tramandate e santini ossidati, arriva Einaudi. E in due colpi ravvicinati punta a riposizionare lo sguardo che pigramente si getta sempre sul poeta russo maggiormente identificato con l’èra sovietica. Proponendo oggi – dopo aver pubblicato un paio di anni fa “Poesie d’amore” – il nuovo “Di questo”, un lungo poema d’amore figlio di una cocente separazione. Quella tra il poeta e Lili Brik, nel Natale del 1922. Dopo due mesi di distacco imposti da lei, i due vanno insieme a Pietrogrado.
In treno Majakovskij snocciolerà tutti i versi con cui aveva riempito il vuoto di quella lontananza. Geolocalizzando, si trattava di poche centinaia di metri dal punto di vista sentimentale di un deserto smisurato di poca o nessuna comunicazione. Brik consentì solo l’uso del telefono, ma sporadicamente: abitava col marito. E intanto, in versi, Majakovskij si autoritraeva: “Come un orso / inferocito a morte / premo il petto contro il telefono”. Dopo la recitazione ferroviaria alla sua donna, scoppiò in lacrime. Che momento ci siamo persi, tutti noi che non eravamo lì? (O che non eravamo e basta.) Tra l’altro, non si immagina situazione migliore di quella per la declamazione di un dolore d’amore rafficato in versi tanto taglienti e angolosi – binari, gelo, un treno che stantuffa, battito sfasciato e sintattico di un amante che piange a ritmo.
C’è, in queste pagine, un urlo che arriva da un altro mondo e che a un altro mondo approda, non sottraendosi a deragliare nella confessione intima. “Da dove, quest’acqua? / Perché così tanta? / Sono io che l’ho pianta”. E immagini nette, da epopea dell’abbandonato. “Sopra il cuscino-ghiaccio / febbricito”. Leggere un Majkovskij d’amore – che non è mai solo d’amore ma di tutto il resto, di tutto il tempo antecedente e di tutto il mondo a seguire – riporta alle radici del significato di quel che fa la grande poesia: dare un appuntamento all’eternità.