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Apologia delle scuole di scrittura, luoghi di studio che non piacciono agli snob

Marco Archetti

Gli istituti accusati di corrompere la scrittura, di insegnarla con metodo e leggendo i classici. Eppure, tra studio serio, laboratori e passione autentica, le scuole di scrittura sono più vive e meno snob dei loro detrattori 

E meno male che gli snob sarebbero i figli degli altospendenti che ce li mandano. Perché a leggere quel che viene scritto sulle scuole di scrittura e narrazione, sorgono dubbi. E un’evidenza: le screditano soprattutto coloro che non ci hanno mai messo piede, dipingendole quando va bene come parcheggi dorati per stalentati di rango, quando va male come luoghi di corruzione di quasi tutto –  della bellezza, della sensibilità, della sacra ispirazione. Nessuna scuola è circondata da un sospetto tanto ostinato come quelle di scrittura. Non le accademie d’arte, non le teatrali, nemmeno quelle cinematografiche o musicali. Distributrici a (cospicuo) gettone di trucchi e calchi, sfornatrici di eserciti di sosia, mercati generali di aria fritta: queste le accuse che, rigurgitando superiorità morale e intellettuale, gli squisiti ed esclusivi depositari del vero (e della Vera Arte, che di certo non si fa là, negli scantinati del Demonio), rivolgono alle scuole di scrittura. Ma si sa, gli elitari sono come quelli nel traffico – sempre gli altri.


Lo spartito di rampogne non conosce grandi variazioni sul tema: sentine diaboliche, viali verso il nulla, fabbriche di plastica. Poi c’è la realtà, luogo decisamente meno visitato. Che mostrerebbe anche ai più scettici come, alla pari con qualsiasi altra istituzione e dispositivo umano, la scuole di scrittura abbiano i loro limiti. Ma soprattutto molti pregi. Di minor clamore, certo, perché non sono fotogenici, men che meno instagrammabili, e non si prestano alla mannaia della polarizzazione, grande evocatrice di applausi al chilo, ma hanno a che vedere col lavoro quotidiano di chi quelle scuole le vive. Per dirne una, non sono il festival permanente del frivolo di cui si favoleggia. Non sono fucine di conformismo. Non sono ambienti meretricali. E per i corridoi non scorrazza il Maligno alla ricerca di anime candide cui sottoporre terribili contratti, ma insegnanti e studenti. Insegnanti che non dispongono di una faretra zeppa di punti esclamativi e asserzioni tonanti né concepiscono le proprie lezioni come eventi pastorali o di vendita di cravatte. E studenti che usufruiscono di uno spazio fisico e di un tempo reale in cui studiare (tanto) e lavorare (tantissimo). E, nel frattempo, uscire dal bozzolo delle proprie concezioni vaghe e sentimentali su cosa sia la scrittura, e quello ancor più tenace delle proprie autopercezioni – il che fa sempre benissimo.

Questo grazie al fatto che ognuna di queste scuole ha elaborato una didattica e che l’attenzione quotidiana è concentrata sullo studio della scrittura, dei suoi meccanismi, e sull’analisi della forza inafferrabile che attraversa ogni forma di bellezza narrativa. Sulla grande letteratura, sulla fisionomia delle storie e sul linguaggio. Sul peso delle parole. Sui classici – che si leggono per davvero – e sui contemporanei – con cui spesso si viene in contatto. Sono luoghi in cui si impara, e in cui si impara a imparare. Si fanno laboratori, e di libri si parla in pausa pranzo, al bar, in ascensore. Lì i libri hanno ancora una vera centralità – non ci si lamenta sempre, sempre, sempre del contrario? Sono luoghi in cui, intorno ai libri, si lavora. Luoghi in cui, tra gente che scrive e che pubblica, tra docenti ed editori, ci si incontra, si parla, ci si conosce, si dà corpo a progetti di lavoro pensati per gli studenti – non tutti vogliono “fare gli scrittori”. Sono comunità a tutti gli effetti, meno schizzinose e più vive di tante altre. Dunque hanno difetti, lacune, assi che scricchiolano. Ma il lavoro che si fa lì dentro è lavoro vero. Appassionato e vero. 


Poi per carità, siamo creature di questa terra e sappiamo che vincerà sempre un richiamino in prima pagina, chi lo negherà. Chi se la caverà a sarcasmi. Chi le disprezzerà in nome di qualche verità che si autoaffermi come unica. E chi singhiozzerà specchiandosi nel retrovisore facendosi le domande più infertili della storia, chiedendosi dove siano finiti i bei tempi andati, e i Pasolini e i Moravia oggi (si leggono nelle scuole di scrittura, per esempio) e ah, che nostalgia quando si viaggiava in carrozza, si vergavano pergamene e maramaldeggiava la peste. Come se fosse un batterio a sfornare un Boccaccio.

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