FACCE DISPARI

Massimo Benenato: “Papà Franco Franchi un maestro di spiritualità”

Francesco Palmieri

Dall'amore per Totò alla religione fino al rapporto con Ciccio Ingrassia, lo scrittore racconta suo padre  

Anche quando non lo ricordiamo non possiamo dimenticare Francesco Benenato, alias Franco Franchi: più che un comico una maschera irripetibile, come oltre a lui soltanto di Totò si può dire. Faceva mille facce ma a differenza di tanti colleghi ne ebbe una sola: sul lavoro come nella vita privata era sempre la stessa gentile persona. Ci tiene a sottolinearlo il figlio Massimo, secondogenito, che non gli somiglia molto ma molto ha preso da lui, sia prima sia dopo la morte avvenuta nel 1992. Chi non si è stupito quando Paolo Isotta definì Totò “santo”, non si meraviglierà che anche Franco Franchi, tutto smorfie e risate, fu uomo di profonda spiritualità.

 

Suo padre era legato a Totò?

Lo considerava una sorta di padre adottivo. Quando io e mia sorella Letizia eravamo piccoli, gli unici film che vedeva con noi erano di Totò. Spesso andavamo a Napoli ospiti di Mario Merola, compare di papà, e lui non mancava di visitare la tomba del principe.

 

È vero che anche suo padre fece molta beneficenza?

Aveva patito la fame e se qualcuno gli chiedeva aiuto non lo rifiutava mai, soprattutto a chi aveva figli. Metteva mano alla tasca e non lo raccontava.

 

Lei al cinema ha preferito la scrittura.

Mi sono appassionato alla musica, alla pittura, poi ho scoperto nella scrittura la mia forma di espressione. L’ultimo romanzo, “Ali d’Angelo”, è uscito nel 2023 e come il precedente “Sotto le stelle di Roma”, da cui è stato tratto un film diretto da Giuseppe Di Giorgio, ho voluto pubblicarlo con le edizioni Spazio Cultura. Ci tengo ad avere un editore siciliano.

 

Si sente siciliano o romano?

Cittadino del mondo, ma papà volle che io e mia sorella nascessimo a Palermo e palermitano sono. Mio padre con Ciccio recitò in 132 film fino al 1972 e non c’era quasi mai, sicché l’estate la passavamo con mamma a Palermo coccolati dalla sua famiglia d’origine. Ci torno spesso e anche le mie due figlie ogni volta sono felici. A Roma studiano, ma la Sicilia è spazio e tempo di festa.

 

Quanti fratelli aveva suo padre? Le biografie discordano.

Ne ho conosciuti sei, altri tre morirono da piccoli ma lui mi diceva che erano quattordici… Non ho conosciuto il nonno ma la nonna sì: si chiamava Agata e somigliava tantissimo a papà, però su una statura minuta. Come la zia Stefania, la sorella cui era più affezionato perché fu spettatrice dei suoi primi tentativi comici. Avevano la stessa verve. Quando scendevamo a Palermo papà riuniva tutta la famiglia. Amava condividere il benessere.

 

Molti a Roma ricordano di averlo incontrato al Bar Cantù sull’Appia, che aveva rilevato.

Lo cedemmo l’anno dopo la morte di papà, ma i successivi proprietari conservarono sempre le fotografie di Franco e Ciccio. Oggi viviamo di immagine e superficialità, ma quelli come loro, che venivano dalla gavetta, non si davano arie: avevano dovuto imparare a fare, prima di ricevere attenzione. È uno dei motivi per cui scrivo: riportare la gente a se stessa, fuori dagli smartphone, con storie che emozionino e facciano riflettere. Mi accorgo con preoccupazione che molti neppure riescono a leggere un post troppo lungo e tanti ragazzi sentono i vocali su WhatsApp a velocità aumentata per non perdere tempo ad ascoltare gli amici. Perciò nel prossimo libro parlerò di afefofobia, la paura del contatto fisico.

 

Ha attinto da suo padre l’interesse per la spiritualità? Non è la prima cosa che s’immagina di Franco Franchi.

Cominciai a scrivere dopo la sua scomparsa. Da quando lui è stato presente in altro modo l’ho rivisto più volte. Se ci ripenso mi si rizzano i peli, ma è stata una fortuna immensa: mi ha fatto sconfiggere la paura della morte e ha cambiato la mia vita aprendomi all’introspezione. In tanti hanno contatti con l’altra dimensione, ma hanno pudore a raccontare eventi che dovrebbero dare speranza e invece mettono quasi paura.

 

Come le è apparso suo padre?

Con le fattezze un po’ più giovani di quando se ne andò, non un corpo materico ma era perfettamente lui, sorridente, pieno di luce. Indicava se stesso come a dire: vedi che sono qua… È apparso pure a mia sorella ma lei si emozionava troppo e lo pregò di non tornare.

 

Quand’era vivo affrontavate questi temi?

Ci diceva di non temere la morte, perché la carne si disintegra ma l’energia rimane.

 

Era credente?

E devoto alla Madonna. Aveva comprato una scultura della Vergine e lo sorpresi spesso a colloquio davanti a quella statua. Papà era nato poverissimo e non aveva potuto studiare, ma si formò una cultura ricca di interiorità.

 

C’è una cosa che vorrebbe rifare con lui?

Suonare. Suonava di tutto, persino la foglia, che sembrava un violino. Mi spiegò come fare però non ci sono mai riuscito. Poi ricordo quando osservavamo le stelle: aveva la passione dell’astronomia, s’era procurato un cannocchiale enorme e m’invitava a guardare il cielo. Fu il suo hobby più grande.

 

Quale film ama di più di Franco e Ciccio?

“Due marines e un generale” con Buster Keaton, perché mette a confronto la comicità silenziosa dell’americano e quella chiassosa di loro due. Poi “Kaos” dei fratelli Taviani nell’episodio da “La giara” di Pirandello e il “Pinocchio” di Comencini, dove Franco e Ciccio interpretano il Gatto e la Volpe.

 

Franco e Ciccio litigarono davvero?

Ciccio è stato il mio padrino, e anche se col suo aplomb era l’opposto di mio padre fu una persona di famiglia. Ogni tanto avevano qualche screzio perché non essendo ipocriti si dicevano tutto in faccia, così non si parlavano per dieci giorni poi smaniavano per rincontrarsi. Dopo la morte di papà, Ciccio soffriva a rivederci. Se n’era andata una metà di lui.

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