l'opera

Hotel Metamorphosis a Salisburgo è commovente. Una lezione per gli pseudo sovranisti

Alberto Mattioli

Cinque metamorfosi ovidiane, un pasticcio vivaldiano scintillante e la regia visionaria di Kosky per uno spettacolo commuovente. Le fonti della nostra civiltà classica celebrate all’estero

Pigmalione è un nerd occhialuto e imbranato, di quelli che però fondano la multinazionale di successo nella stanza di un albergo. Aracne, una “creatrice digitale”, ovviamente, che finisce inviluppata dai fili del suo stesso computer. Mirra entra nel frigobar come donna e ne esce come pianta. Benvenuti a questo Hotel Metamorphosis, gran successo al Festival di Pentecoste di Salisburgo e riproposto a quello estivo, opera di un improbabile trio composto da Ovidio, Antonio Vivaldi e Barrie Kosky. Il primo ci ha messo le metamorfosi. Il secondo, i brani più belli del suo sterminato catalogo, un “Greatest hits” dove si sceglie fior da fiore riassemblando arie e affetti secondo la prassi del “pasticcio”, dunque Settecento in purezza. Il terzo, il gran regista arrivato dall’Australia a miracol mostrare a noi europei esausti, si è inventato con il drammaturgo Olaf Schmitt questo spettacolo che è un grande atto di fede nella capacità della mitologia, e della musica, di raccontare storie e raccontarci. Sono cinque metamorfosi (oltre a quelle citate, le due coppie Eco e Narciso e Orfeo ed Euridice) per quattro ore di Vivaldi che volano e stregano. E dove, se non in una stanza di questi albergoni internazionali, lussuosi e stereotipati? Fra la gente che viene e quella che va ci sono anche loro, questi casi umani raccontati da Ovidio come metafora dell’umanità intera. A legare arie tripartite ma anche cori e sinfonie e concerti, in un tripudio di assoli di viole d’amore, chalumeau, salteri e mandolini, i racconti di una narratrice, la gloriosa attrice tedesca Angela Winkler, poi anche Orfeo in versione tragica, benché alla fine decapitato e non sbranato dalle baccanti. Si finisce con un Sileant zephyri che, per la verità, non ricordavamo vivaldiano, chissà chi l’avrà composto, qualche sospetto l’avrei.

Ovviamente non tutto funzionerebbe con quest’evidenza rivelatrice se la parte musicale non fosse meravigliosa come lo spettacolo. I Musiciens du Prince non li scopriamo certo adesso, ma ogni volta è una gioia ritrovarli, agli ordini di un Gianluca Capuano ribollente di energia, fantasia, colori, dinamiche, effetti, affetti, grande musicista davvero. Cecilia Bartoli, che fa Aracne ed Euridice, è annunciata indisposta e la sua prova diventa quindi un manuale di come si canta, e benissimo, anche con il raffreddore, ricacciando il catarro giù fra una volatina e l’altra e cesellando le arie su fiati sottili e infiniti, ipnotici. Santa Cecilia, magnanima, lascia una delle sue hit vivaldiane più celebrate, “Agitata da due venti” dalla Griselda, alla diva giovine Lea Desandre: bene ma Cecy era meglio. Comunque, Desandre funziona perfettamente come Statua, Mirra ed Eco, e anche in un altro cavallo di battaglia bartoliano, “Zeffiretti che sussurrate” da Ercole sul Termodonte (che vi stupite? Per noi baroccari, sono arie popolari, come “Nessun dorma!” per i melomani medi). Poi ci sono Philippe Jaroussky, Pigmalione e Narciso, ancora solido nonostante qualche percettibile fatica, e una russa nuova, Nadezhda Karyazina, voce stupenda da mezzocontralto e fisico da modella. Aggiungete il coro il Canto di Orfeo e la compagnia di ballo, eccellenti entrambi, e la festa è completa.

Personalmente, ho avuto ben tre botte di commozione clamorosa: quando Pigmalione e la Statua si sono messi a danzare sul duetto “Dimmi, pastore” della Fida ninfa, quando la Santissima ha chiuso l’opera con “Gelido in ogni vena” dal Farnace (come lei, qui, nessuno mai) e quando mi è sovvenuta la splendida definizione che Vincenzo Monti diede della mitologia nel Sermone a lei dedicato: “E fu prima fantasia del mondo”. Poi la commozione è diventata irritazione pensando ai nostri sovranisti alle vongole, e al fatto che per celebrare queste fonti della nostra civiltà classica si debba andare all’estero. L’unica attenuante che hanno è che non sospettano neppure che si possa farlo, né che qualcuno effettivamente lo faccia con quest’ostensione così sfacciata e gloriosa di una bellezza eterna.

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