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il poeta

I rari atomi della felicità e il “suono del cuore” che occorre per evocarli. A proposito di Guido Ceronetti

Anna Katharina Fröhlich

Un viaggio nell’universo segreto di Ceronetti, fatto di silenzi, visioni e antiche sapienze. Pensatore inclassificabile, esplorò la fragilità umana con rigore, ironia e dolcezza

Solamente pochi viaggiatori giungono a fine ottobre nella cittadina collinare di Cetona, oggi uno dei borghi più alla moda dell’Umbria, non solo perché alcuni dei grandi della società italiana posseggono qui le loro residenze estive, ville ombreggiate da giardini, nelle quali, tuttavia, non fu di casa l’abitante più importante e recondito di Cetona: Guido Ceronetti. Nell’antico Oriente, un essere come lui sarebbe stato venerato come un hakim, un saggio, che univa la professione di pensatore a quella di medico. Lo stesso Ceronetti, riguardo alla sua posizione spirituale, si collocava in un eventuale punto nello spazio “che separa Buddha da Émile Littré”. Per lui, “il problema della salvezza (della vera sapienza)” consisteva nello svuotarsi, anche se non fece altro che seguire le sue “curiosità libertine”, pur essendo perfettamente consapevole che “Dio non può venire che nel cuore vuoto, concentrato in lui, non in un cuore occupato da Dizionari”. Forse però nemmeno questa descrizione della sua collocazione intellettuale fornisce una risposta alla domanda su chi fu Guido Ceronetti.


Un altro tentativo di risposta potrebbe suonare sconcertante: Ceronetti fu saggista e romanziere, drammaturgo e burattinaio, cristiano, buddista o taoista (a seconda dell’ora). Fu asceta, vegetariano e chiromante, organista, mistico e gnostico, un homme à femmes e un sarcastico cronista di eventi culturali e politici. Fu maestro del tè, esegeta dei testi dell’Antico Testamento e un misantropo impedito per via della sua venerazione per le donne. Nemico giurato di ogni volgarità e instancabile flagellatore del demone tecnocratico, sicuramente nessun altro pensatore dopo Cioran fu così rattristato e affascinato dallo stato d’abbandono dell’essere umano nei nostri tempi. Simile a Cechov, anche Ceronetti potrebbe essere definito un “un genio dell’amicizia”. Fu un uomo capace di amare, un uomo, che davanti al suo leggio seguiva con inesauribile dedizione i sentieri della saggezza orientale e occidentale, instancabilmente alla ricerca del nucleo divino nello spirito umano.


Nato a Torino nel 1927 – la madre era cassiera in un piccolo cinema, il padre gestiva un’attività artigianale – cercò fin da bambino uno spazio intellettuale al di fuori dei confini della sua “famiglia ossessiva”, spazio che trovò nei libri e, dalla metà degli anni Cinquanta in poi, nelle lezioni di un anziano rabbino la cui moglie e i cui figli, durante la fuga in Italia, furono strappati dalla Gestapo da un treno al Brennero e poco dopo assassinati in un campo di concentramento. Questo ebreo barbuto, trattato così crudelmente dal destino ma incrollabile nella sua fede, insegnò al suo giovane allievo l’ebraico antico, una lingua che Ceronetti studiò per tutto l’arco della sua vita per confrontarsi con il “tumulto verbale” e la “disperata chiarezza” dell’Ecclesiaste, che, insieme ai Salmi, al Libro di Giobbe, a Isaia e al Cantico dei Cantici, avrebbe tradotto in italiano, fornendo le sue traduzioni di commenti illuminanti, per i quali i suoi lettori mai potranno ringraziarlo abbastanza. Forse nessun altro esegeta biblico ha trasmesso in modo così penetrante, nella loro forza autorevole e dolorosa, i testi inquietanti dell’Antico Testamento.


Quando, a quasi novant’anni, Ceronetti ripensava ai suoi decenni di studio dei testi biblici li considerava come uno dei duelli descritti da Joseph Conrad. La sua vittoria finale era dovuta a un suo dono peculiare: riconosceva più di altri la magica virtù della parola poetica, una virtù inscindibile dal suono. Come l’autore del Cantico dei Cantici, Ceronetti era alla ricerca di quel suono curativo della lingua, della sua misteriosa vibrazione, un suono che rintracciò anche nella pittura, nell’architettura e nel cinema. Tutti i fenomeni a cui si è dedicato con passione, come i dipinti di Grünewald o di Rembrandt, la poesia di Baudelaire o di Kavafis, le odi di Orazio o le manifestazioni dell’amore, li esplorò alla ricerca di quel suono che forse potrebbe essere descritto come il “suono del cuore”. Sapeva che solo il “tono giusto” possiede qualcosa di incorruttibile, che solo esso si collega alla vena della vita.


Mentre i giri infernali di Dante, a fianco di Virgilio, erano eccitanti come l’attraversamento di un tendone da circo indiano, l’Inferno percorso da Ceronetti era una pianura di cemento dominata dalla tecnologia, colma di monossido di carbonio, inondata da acque reflue industriali e abitata da anime morte. Nel suo viaggio, lungo quasi nove decenni, traversò “il regno del male”, in cui il linguaggio gli servì come unico esorcismo contro il fuoco e i demoni. Nulla era al sicuro dallo sguardo penetrante di questo studioso emerso dal mondo delle mandragole, che si nutrì di tè verde e chicchi d’orzo e che riconobbe presto che “l’arma più pericolosa che sia stata inventata è l’uomo”. Dopo la sparizione delle bestie feroci e dopo che sono stati spazzati via i terrori del cielo – distrazioni relativamente piacevoli secondo lui – l’unica fonte di terrore rimanente nel mondo costituisce l’uomo. Nelle metropoli, scrive Ceronetti,  questo terrore è così forte che le trasforma in mostruose fortezze di paura.


“Gellio dice che la temperanza scampò Socrate dalla peste ateniese, mediante astinenze e vita ben regolata”. Forse seguendo l’esempio del filosofo, anche Ceronetti si protesse dai mali del nostro tempo con temperanza e astinenze. Il suo motto fu: “Nutrirsi come una formica e defecare come un elefante” – non solo per ragioni fisiche, ma anche metafisiche. Eppure, questo hakim italiano non volle eliminare nulla di ciò che resta ancora di umanamente bello e fiabesco nel mondo, poiché sebbene fosse della convinzione che l’umanità sonnambula si stesse costruendo la propria pira funeraria, credeva nella felicità, sì, fu un collezionista di quei rari atomi di felicità che hanno il potere di far brillare le nostre vite.


“Bevete tè e non disperate!” Tra le mele e le pere, l’uva e i fiori rossi del cesto di frutta che avevo preparato per Guido Ceronetti e portato sotto la pioggia ottobrina attraverso un vicolo buio di Cetona fino alla biblioteca del suo appartamento, giaceva un sacchetto di Japan Kamairi-First Flush, un’allusione a uno dei suoi Pensieri del tè: “Nelle regioni mentali profonde, dove il pensiero contempla la Via, dove il cielo s’incurva fino a circoscrivere con la sua danza invisibile il nostro doloroso sforzo di penetrarlo, è percepito  soprattutto, come annuncio  che il cielo è vicino, l’aroma del tè.” Per tutta la vita, Guido Ceronetti fu legato alla stella dello spirito, che anche quel giorno di pioggia luccicava nei suoi occhi miopi, la cui chiarezza non era affatto appannata dall’età. Una volta tradusse una frase di Kafka, che afferma che l’uomo dispone di due vie di fuga: il suicidio o lo spirito. “Dal mondo, con la forza o con la dolcezza, si può ancora fuggire”. Chiunque abbia letto i libri di Ceronetti sa che, per quanto Dio lo avesse gravato di dolore e paura, non avrebbe mai scelto la prima via, perché viola il sacro, e il sacro fa paura. “Ma anche la sua assenza, anche il mondo dissacrato, senza regole, senza divieti. Liberi non possiamo esistere. Bisogna eleggere quel che consola di più”.

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