Cocomeri armati. Storie e guerre del re dei frutti

Enrico Cicchetti

Da zucca amara, di cui i nostri antenati mangiavano solo i semi, a dissetante goduria estiva. L'anguria non è solo un frutto ma un piccolo universo sferico dove si intrecciano mito, cultura e simbologia. E pure conflitti. Fenomenologia del cocomero

In principio era il deserto, e nel deserto alcuni uomini. Pastori nomadi con la bocca impastata di sabbia e vento, raccolti con le proprie greggi in una grotta che la geografia moderna battezzerà Uan Muhuggiag, nel sud-ovest di una Libia allora più rigogliosa ma di certo non ospitale. Chiacchierano e osservano le pareti della grotta, decorate con dipinti di cacciatori armati di lancia e prede in fuga: grossi bovini, giraffe e coccodrilli. Qualcuno tiene fra le dita una manciata di semi che scricchiolano tra i denti e non ha idea che un giorno questi diventeranno reperti da laboratorio, insieme a ossa, manufatti e alla mummia di un bambino, ritrovati in quello che oggi è un importantissimo sito archeologico. Quei semi, come dimostrerà seimila anni dopo un’analisi genetica pubblicata su “Molecular Biology and Evolution”, rappresentano il più antico genoma vegetale mai sequenziato: appartenevano a un antenato selvatico del nostro cocomero, tremendamente amaro, come nota la botanica Susanne Renner della Washington University di St. Louis, che insieme al dottor Guillaume Chomicki della Sheffield ha guidato lo studio. Ma i nostri pastori del resto non stavano cercando dolcezza: cercavano grasso, nutrimento, l’equivalente preistorico di una barretta energetica. La polpa del frutto, allora, era pallida e insipida: più zucca che anguria. Ci vorranno millenni di selezioni, innesti e mutazioni per trasformare quella bacca desertica in ciò che oggi tagliamo a fette in spiaggia, nel “frutto dell’albero della sete”, come lo definì il genio poetico di Pablo Neruda. Perché l’anguria, – “balena verde dell’estate, cassaforte dell’acqua, bottega della profondità”, è sempre farina del sacco del Nobel cileno – non è solo un frutto ma un piccolo universo sferico dove si intrecciano storia, mito, cultura e simbologia.


Che il cocomero nasca dalle savane e non da un Eden rigoglioso dice già molto della sua natura doppia: prima di diventare balena dell’estate, fu pesciolino essiccato: semi masticati dai nomadi nubiani, cetrioloni giallognoli che sembrano fratelli rachitici dei colossi che affollano i nostri supermercati, già affettati e incellofanati a dovere; eppure sono loro a raccontare come il gusto umano abbia lentamente addolcito la natura. Solo con l’agricoltura del Nilo il frutto originario cominciò a diventare più zuccherino e più grande.


Nell’antico Egitto, l’anguria compare in rilievi su pietra; i suoi semi sono stati rinvenuti in tombe faraoniche, simboli di abbondanza e ristoro. Nella tomba di Khnumhotep e Niankh-Khnum a Saqqara, in Egitto, risalente a circa 4.500 anni fa, è riprodotto un cocomero ovale, antenato snello dei giganti moderni. E utilizzando il genoma di una foglia di 3.560 anni fa, proveniente da un sarcofago, gli scienziati hanno dimostrato che che le cultivar moderne e la pianta antica condividono mutazioni in un gene del metabolismo del licopene, che influenza il colore della polpa, e un codone di stop in un fattore di trascrizione che regola i composti amari. In soldoni: gli egiziani del Nuovo Regno coltivavano angurie dalla polpa rossa e amabile, quasi come le nostre. Le testimonianze archeologiche rivelano che i cocomeri venivano anche deposti nei corredi funebri, un’offerta carica di valore simbolico: l’anguria o i suoi semi, snack per l’oltretomba, erano considerati un dono capace di assicurare sostentamento e rigenerazione. Secondo alcune fonti, l’origine del frutto era fatta risalire al dio Seth. Divinità complessa: signore del deserto, del caos e della violenza, la cui voce è il tuono, Seth non è però solo forza distruttrice, ma anche elemento indispensabile alla vita e all’ordine ciclico dell’universo. In questo senso, il cocomero interpreta un dualismo potente: nasce da energie selvagge, ma si offre come elisir, come ponte fra aridità e rigenerazione. Promessa di rinascita, nel suo ventre rigonfio racchiude il continuo intreccio tra la morte e la speranza di nuova vita.

  
Poi, come ogni migrante degno di questo nome, l’anguria salì sui barconi del Mediterraneo antico e approdò in Europa, ibridandosi con varietà locali. Greci e romani, in trattati medici, la lodarono come diuretico e rimedio al colpo di calore: Plinio il Vecchio ne esalta la capacità refrigerante in “Naturalis Historia” mentre Dioscoride suggerisce di appoggiarne la scorza sulla fronte di bimbi affetti da malore estivo. Avanti veloce: ritroviamo disegni di angurie con un erotico spacco rosso nei codici miniati medievali, come quello del “Tacuinum Sanitatis” conservato a Vienna, mentre il “Libre de totes maneres de confits”, manoscritto catalano del XIV secolo, le candisce, conserva e trasforma in una delizia da spezieria. A questo punto la natura è morta. Eccoci così alle pitture fiamminghe in cui le fette diventano gemme aperte, ai quadri barocchi dove l’anguria è tagliata come un cuore esibito su un altare profano. Gli artisti testimoniano l’evoluzione stessa del frutto: nei dipinti del Quattrocento la polpa è più chiara, striata di semi bianchi; nel Seicento diventa rossa e succosa. In un articolo di Vox di qualche anno fa, un professore di orticoltura dell’università del Wisconsin diceva di usare, per spiegare la storia della selezione delle colture, una natura morta del pittore secentesco Giovanni Stanchi: le sue angurie sembrano quasi strani agrumi, con spiralii di polpa rosata disposte a spicchi attorno a una stella biancastra. Più rosso diventa il frutto, più zucchero entra nella dieta europea: l’arte si fa sismografo del gusto collettivo e impronta del breeding genetico. Fino alle sue versioni più assurde e al contempo a noi più familiari: l’anguria spappolata di De Chirico, quella che levita in “equilibrio infra-atomico con piuma di cigno” di Dalì, quella tricolore di Balla.


Se la storia naturale del cocomero è un romanzo di addomesticamento, quella culturale è spesso una cronaca di guerra. Lo storico del cibo Gil Marks ipotizza che furono i mori a portare il frutto in Spagna nel XIII secolo e che gli ebrei ne abbiano introdotto la coltivazione in Francia. Già nel II secolo d.C. gli ebrei ne regolavano produzione e consumo: testi sulla decima, ossia la parte del raccolto da destinare ai sacerdoti e ai poveri, indicano che i frutti, detti avattihim, dovevano essere disposti uno a uno per non rovinarli, il che ci fa immaginare avessero una scorza più fragile dei loro cugini odierni, ma un gusto già dolce, poiché nel Talmud vengono accostati a fichi, uva e melagrane. Facendo un salto di un paio millenni, scopriamo che le angurie sono rimaste tra i frutti preferiti in Israele. È di nuovo Marks a ricordare quanto il cocomero sia un simbolo della cultura popolare del paese: avrebbe accompagnato la nascita stessa dello stato ebraico, tanto da comparire in diverse canzoni dei suoi pionieri. Da “Avatiach”, composta nel 1938 da Shmuel Bass e Menashe Rabinowitz, al disco d’oro del 1971 di Chava Alberstein intitolato “Isha ba’Avatiach”, ossia “Una donna in un’anguria”. Cortocircuiti dell’iconografia: oggi il frutto è diventato simbolo della Palestina, perché i suoi colori — rosso, verde, nero, bianco — replicano quelli della bandiera. Negli anni Ottanta le autorità israeliane vietarono l’esposizione dei vessilli palestinesi; così comparvero cocomeri dipinti, affissi, fotografati. Oggi l’emoji della fettina d’anguria circola sui social come surrogato del drappo. Uno sticker identitario, copincollato all’infinito da tifoserie social nella banalizzazione del conflitto. 

 
A migliaia di chilometri e quasi due secoli prima, un’altra anguria entrava in un’altra guerra, il “Watermelon Riot”. È la sera del 15 aprile 1856 a Ciudad de Panamá, nell’allora Repubblica della Nuova Granada. Un americano in transito verso la California compra una fetta d’anguria da un venditore ambulante e, insoddisfatto della qualità, rifiuta di pagarla. Ne nasce una rissa che degenera in rivolta a colpi di machete e armi da fuoco tra cittadini panamensi e viaggiatori statunitensi. La tensione era già alta per il malcontento economico creato dalla ferrovia costruita dagli americani, che aveva sostituito i tradizionali mezzi locali per il trasporto di merci e passeggeri: semplici battelli fluviali e carovane di muli, che tuttavia davano da mangiare a tanti. Gli scontri causarono la morte di 15 americani e 2 panamensi e la distruzione di proprietà statunitensi, inclusa la stazione ferroviaria. Washington inviò le sue truppe e chiese un risarcimento, ottenuto con il trattato Cass-Herran del 1858, ma quell’evento segnò l’inizio degli interventi degli Stati Uniti a Panama per proteggere i propri interessi strategici.


Benché meno sanguinosa, anche la storia linguistica dell’anguria nel nostro paese è una guerra civile permanente. Come se la penisola avesse sempre bisogno di un fronte per dividersi, di un vocabolario privato per non intendersi: non si litiga solo sul vero e unico ripieno, sulla migliore ricetta del sugo, ma anche sulla nomenclatura del frutto che rinfresca i pranzi d’estate. Del resto, scriveva Mattia Torre nel suo delizioso e tremendo monologo “Gola”, “Noi siamo, rispetto al cibo, un popolo rancoroso e violento, che anche ai buffet delle cene di beneficenza sgomitiamo, spintoniamo”. In Emilia e Toscana lo chiamano cocomero, dal latino volgare cucumis, che significa “cetriolo”. Al nord si dice anguria ma in ligure è la pastèca (dal francese pastèque, che a sua volta viene dall’arabo battikha, “melone”). A Napoli ci si rinfresca con o’ mellon r’acqua. L’Accademia della Crusca ha tracciato la mappa di questa babelica variabilità: ogni nome porta con sé un pezzo di storia. “Anguria è variante settentrionale per il toscano cocomero; il nome entra in italiano attraverso il veneziano dal greco tardo angóuria plurale di angóurion ‘cetriolo’ [...] In Calabria, zi pàrrucu (zio parroco), cioè rubicondo come il volto del parroco”. Anche se il dialettale zipangolo si associa facilmente a Zipangu o Cipango, il nome col quale Marco Polo indicò il Giappone. 

 
E allora occorre tornare indietro nel tempo, al nostro frutto che ha lasciato l’Africa e ha iniziato a viaggiare. Passaggio a nordovest, ma anche a nordest: nel X secolo aveva già percorso la Via della Seta. Gli annali cinesi parlano di xi guà, letteralmente “melone dall’ovest”, segno che il cocomero era percepito come straniero ma era gradito già allora. Oggi la Cina è il primo produttore al mondo: domina ampiamente il mercato con una produzione annua mostruosa: intorno ai 60-64 milioni di tonnellate, più del 60 per cento del totale globale. Basti pensare che la Turchia, seconda sul podio, produce poco più di 3 milioni di tonnellate all’anno. Anche ai giorni nostri, chi viaggia in Asia centrale non può non notare, nell’arsura desertica di quei luoghi fatati, carovane di camion carichi di gonfi gusci verdoni e, a ogni angolo d’ombra, qualcuno che riempie il portapacchi di angurie, meloni e cetrioli, rare vitamine in un menù altrimenti barbarico. Una favola dell’Uzbekistan, terra dove cocomeri e meloni sono orgoglio agricolo, racconta che un contadino miserando salvò una cicogna ferita. L’uccello tornò da lui e lasciò cadere tre semi di anguria. Ne crebbero frutti enormi: aprendoli, il contadino vi scoprì un mucchio di monete d’oro e divenne ricco. Per imitarlo, un vicino invidioso ferì e poi curò un’altra cicogna; anche questa lasciò piovere dal cielo alcuni semi, ma dai loro frutti uscirono sciami di calabroni. Per scansarli, l’avido vicino fu costretto a saltare nel fiume, dove annegò. In Vietnam, una leggenda narrata nel “Linh Nam chích quái” del XIV secolo, racconta di Mai An Tiêm un funzionario reale invidiato dagli altri cortigiani. Le malelingue riescono a convincere il sovrano ad esiliarlo su un’isola deserta, lasciando che sia il Cielo a decidere il suo destino. In questa leggenda è un fagiano che lascia cadere dei semi sulla sabbia. Tiêm li pianta e, manco a dirlo, ne nascono dei cocomeri che lui incide con il suo nome e lascia galleggiare nel mare. Dei pescatori li raccolgono e li portano alla corte del re che lo riammette a palazzo.


Mentre i simboli si accendono e si spengono, la biologia prosegue imperturbabile. Il cocomero appartiene alla famiglia delle cucurbitacee: cugino dei cetrioli, più vicino alla zucca che alla pesca. Secondo le analisi filogenetiche più recenti, il suo antenato più prossimo potrebbe essere il melone del Kordofan, regione del Sudan, che sembra una zucchina disegnata da Botero. Se poi parlate con i botanici, vi diranno che l’anguria è un “falso frutto”. Si tratta in realtà di una bacca pepònide, un termine che sembra inventato da Calvino per un bestiario fantastico. Oggi se ne coltivano centinaia di varietà: dalle mini angurie giapponesi densuke (nere, perfette, che possono arrivare a costare migliaia di euro) ai mostri americani da Guinness, come quello da 159 chili cresciuto in Tennessee. C’è persino un campionato mondiale di sputo del seme: record imbattuto 23 metri, abbastanza per coprire la lunghezza di un vagone ferroviario. Da queste imprese a TikTok il passo è breve: milioni di visualizzazioni per le gare in cui si divorano angurie senza usare le mani o per il “watermelon carving challenge”, dove adolescenti trasformano il frutto in elmo da gladiatore, in una continua reinvenzione pop. A un certo punto degli anni dieci di questo strambo millennio, un cocomero divenne un fenomeno del web. La “sfida dell’anguria esplosiva” consisteva nell’avvolgere, uno a uno, degli elastici attorno al frutto, finché la pressione non l’avrebbe fatto esplodere. Il tutto ovviamente davanti a una telecamera. L’8 aprile 2016, il sito web BuzzFeed ha trasmesso l’acrobazia in diretta su Facebook. Nei 45 minuti di streaming, l’evento ha raggiunto 2,8 milioni di persone, toccando il picco di oltre 800.000 spettatori in contemporanea nel momento in cui la scorza ha deciso di gettare la spugna, facendo volare in aria pezzi di polpa rosata. Numeri del genere, capaci di attizzare qualsiasi dirigente televisivo, accesero il dibattito sul futuro della tv e del giornalismo: ci si iniziava a rendere conto che persino una sfida demenziale poteva catalizzare un’attenzione di massa.

  

     

Del resto – spiace per la banana – è il cocomero il vero frutto dell’amor. Come sanno bene gli appassionati di cinema e di musica. Partiamo dai classici? C’è chi legge la frase “I carried a watermelon” pronunciata da “Baby” (Jennifer Grey) nel celebre film “Dirty Dancing”, caricandola di un significato simbolico legato alla scoperta della femminilità e dell’attrazione. Non è difficile immaginare perché, affondando la bocca all’interno della sua polpa succosa. A proposito, recuperate “Il gusto dell’anguria”, commedia sexy del 2005 diretta da Tsai Ming-liang, Orso d’argento a Berlino. Nel 2020 la hit pop di Harry Styles, “Watermelon Sugar”, ha trasformato il frutto in un inno alla felicità, al sesso leggero e alla dolcezza della vita estiva. Ancora una volta, l’appeal ambivalente del cocomero: è al tempo stesso innocente rinfresco e simbolo sensuale, innocua bolla di zucchero e provocazione colorata. Ecco perché Frida Kahlo incide “Viva la vida” su una fetta d’anguria, nel suo quadro omonimo e stupendo del ‘54, l'ultimo dipinto prima di morire. 


Torniamo così alla nostra calda estate italiana. Che non comincia davvero finché qualcuno non affonda una lama in un cocomero appena tolto dal frigo. Il suono secco della buccia che cede, i semi da levare col coltello, l’attesa di una fetta come un sacramento. Non importa se lo chiami cocomero o anguria: è l’oggetto rituale di un agosto mediterraneo. In quel gesto si intrecciano migliaia di anni di storia agricola, guerre dimenticate, icone artistiche e meme virali. Frutto della sete e della festa, balena verde e ancora oggi un po’ miraggio: morderlo significa per un attimo credere che il caldo si possa sconfiggere a colpi di zucchero rosso. Lì dentro si nasconde ancora, minuscolo e immortale, il seme salvifico del deserto.

  • Enrico Cicchetti
  • Nato nelle terre di Virgilio in un afoso settembre del 1987, cerca refrigerio in quelle di Enea. Al Foglio dal 2016. Su Twitter è @e_cicchetti