
Una prova per la prima teatrale dell'opera alla Royal Opera Hous, Londra, 1973 (foto Getty)
in scena
“Owen Wingrave” al Festival della Valle d'Itria
A 54 anni dal debutto in televisione, l’opera pacifista che Benjamin Britten scrisse per la Bbc arriva in Italia. Un capolavoro rivelato
Dopo appena 54 anni, arriva in Italia Owen Wingrave di Benjamin Britten, forse la prima opera della storia a debuttare in televisione (nel ’71, commissione della Bbc). Meglio tardi che mai, certo, e chapeau al Festival della Valle d’Itria di Martina Franca, trulli & trilli in un barocco da sogno, dove la nuova direttrice artistica, Silvia Colasanti, sta facendo un lavoro notevole: ci si è visto anche un Tancredi di Rossini superintegrale e, quel che più conta, assai bello. Dunque, Owen Wingrave, da Henry James, manifesto pacifista di Britten che mette in scena il consueto scontro fra l’individuo e la società che lo schiaccia.
Rampollo di generazioni di Wingrave che hanno combattuto e sono morti “for King and Country”, Owen decide invece che non sarà soldato. Viene deriso, insultato, diseredato dal nonno generale e dalla zia stronzerrima, nonché dalla fidanzata e relativa suocera, fino alla tragedia finale nella stanza gotica dei fantasmi dove un remoto Wingrave aveva ucciso un figlio codardo. Britten, pare, non possedeva una televisione e di certo non l’amava: e tuttavia l’originaria destinazione dell’opera si vede nella costruzione drammaturgica che procede per campo e controcampo. Di azione vera e propria ce n’è pochissima, a partire dal fatto che la catastrofe finale si svolge fuori scena: si parla invece molto, fra caserme e salotti vittoriani (ammesso che ci fosse differenza), e lugubri camere da pranzo dove si riunisce la famiglia tremenda. Come al solito, in Britten il non detto è altrettanto forte di quel che viene esplicitato. Il vero conflitto è tutto psicologico, e approda all’accettazione di sé da parte di Owen, che è non affatto un salice piangente o un debole, ma un uomo determinato che si considera un combattente, sia pure per la causa di chi non vuole combattere (dovrebbero rifletterci i pacifisti modello irenista-babbeo che imperversano di questi tempi, almeno quelli non in malafede).
Musicalmente, è un Britten terminale che unisce al rigore della costruzione una straordinaria essenzialità, confermandosi il maggior operista del secondo Novecento: se poi non piaceva, o piaceva poco, ai sommi sacerdoti dell’avanguardia, ebbene, tant pis pour eux. Dai teatri vogliamo, e non da oggi, più Britten per tutti (anzi, già che ci siamo con le ordinazioni: portateci anche una Gloriana, per piacere. Scritta nel ’52 per l’incoronazione di Elisabetta seconda mettendo in scena la prima, non è mai stata data in Italia).
Di gran livello lo spettacolo martinese. Eccellente il direttore, Daniel Cohen, capace di far montare la tensione di una musica che racconta l’angoscia, e benissimo sia l’Orchestra dell’Accademia della Scala sia il Coro di voci bianche della Fondazione Paolo Grassi. Spettacolo “semplice” e intellegibile di Andrea De Rosa, che giustamente per prima cosa racconta, aggiungendo poche idee ma sempre giuste. E nel complesso ottima la compagnia, dominata come Owen da un baritono che è forse un tenore corto quindi un po’ a disagio in basso, Äneas Humm, però chissenefrega perché è un grande artista. Per una volta, a Martina non un capolavoro ritrovato, ma rivelato. Bravi.