
La copertina della Domenica del Corriere del 27 dicembre 1936 che celebra la vittoria nella guerra d’Etiopia
“Brava gente” in Abissinia
Il Museo dell'Opacità e le pagine buie del colonialismo italiano
Ricostruire la memoria delle nefandezze che abbiamo compiuto in Africa, sì ma come? I tabù ancora difficili da spezzare, le virtù della letteratura e i progetti di allestimenti futuri
La storia del colonialismo italiano è come un boccone indigesto, non va giù né su. E’ quello che ho pensato – parafrasando il giudizio di Alessandro Triulzi, storico dell’Africa – mentre scendevo le scale del bellissimo Palazzo delle scienze, Roma Eur, dopo aver visto Museo delle Opacità #2. Agricolture e architetture coloniali. Coltivo un’antica attenzione per la storia delle società coloniali, ero andata con molta curiosità a vedere il parziale riallestimento delle collezioni di un museo scomparso più di cinquant’anni fa, l’ex Museo dell’Africa italiana. Sono uscita molto perplessa dopo aver visto due suggestive installazioni e un piccolo percorso didattico, rigoroso ma piuttosto povero e di non semplice leggibilità.
A Roma, il parziale riallestimento delle collezioni dell’ex Museo dell’Africa italiana, scomparso più di 50 anni fa: era propaganda pura
Il Museo dell’Africa italiana – lo dicono le vecchie fotografie – era propaganda allo stato puro. Voluto nel 1935 da Mussolini in persona con l’ambizione di celebrare l’Impero, riunendovi anche le collezioni raccolte dal 1914, dopo l’impresa di Libia, il museo fu chiuso nel 1971, sigillando i dodicimila pezzi in casse mai riaperte per quasi mezzo secolo. Ora è in mostra una seconda tappa della progressiva riclassificazione degli oggetti in corso dal 2017, a cura di Rosa Anna Di Lella, Gaia Del Pino e Matteo Lucchetti. Un lavoro finalizzato alla nascita del Museo delle Opacità, che vedrà la luce nel contesto del Muciv diretto da Andrea Villani.
Il Muciv è il Museo delle Civiltà, un progetto faraonico, gigantesco, che riunisce sotto lo stesso tetto le collezioni preistoriche ed etnografiche di Luigi Pigorini, quelle dell’ex Regio Museo geologico, l’Arte orientale, quella africana, delle Americhe e dell’Oceania; quella dell’Alto Medioevo, le Arti e Tradizioni popolari… Due milioni di pezzi e uno sforzo immane per rileggere e ricollocare tutto in una sorta di museo dei musei. Un’idea che per stare in piedi richiede non solo grandi competenze, ma anche coraggio e intuizioni creative.
Un lavoro finalizzato alla nascita del Museo delle Opacità, che vedrà la luce nel contesto del Museo delle Civiltà. Un progetto faraonico
Il Museo delle Opacità dovrebbe aprire l’anno prossimo, ma chissà. E questa è la seconda condivisione col pubblico del riallestimento. Tra le nuove installazioni, ho ammirato le anfore di terracotta con le ceneri del rogo rituale dello scheletro di un edificio dell’ex Ente di colonizzazione del latifondo siciliano. Un’idea suggestiva anche se tortuosa da raccontare: se ho capito bene, questa installazione è stata creata bruciando la copia di un’altra che, a sua volta, riproduceva una struttura coloniale. Si chiama “Ente di decolonizzazione: ceneri” e i resti della combustione sono raccolti in forme di terrecotte africane per “fertilizzare” simbolicamente altri progetti. L’opera è firmata DAAR, progetto artistico di Sandi Hilal e Alessandro Petti, premiati alla Biennale Architettura di Venezia nel 2023.
Qui l’intenzione è utilizzare le incursioni di artisti contemporanei per rigenerare storie cambiandone il significato, oppure per restituire spessore a materiali che nei musei coloniali furono sradicati dai loro contesti e piegati all’uso propagandistico. La perplessità nasce dal fatto che il punto di partenza – la storia coloniale italiana già di per sé poco conosciuta e persino contraffatta – resta nebulosa. E’ difficile decolonizzare il nostro modo di pensare senza passare per la storia coloniale, decodificare e destrutturare quello che non si vede. Paradossalmente si finisce per produrre una comunicazione elusiva, l’esorcismo di un male evocato. Rigenerare liberando significati nascosti è una grande ambizione e bisogna che qualcuno osi coltivarla, ma qui appare debole la memoria di supporto. Come se la materia di partenza fosse così imbarazzante da non poter essere mostrata com’era. E noi abbiamo bisogno di sapere, non di cancellare.
Nel Museo delle Opacità, Opacità sta per amnesia, ma allude anche all’Opacità come diritto, come necessità di condividere le identità culturali senza classificarle, secondo un’idea del poeta martinicano Édouard Glissant. C’è da augurarsi che l’allestimento si chiarisca strada facendo perché quello che si vede fin qui appare davvero opaco, e non nel senso auspicato. Tra l’altro, ormai si può attingere a una ricerca storica e letteraria fiorente, che nel primo quarto del XXI secolo ha prodotto moltissimo.
Molti i romanzi recenti sul nostro passato coloniale: “Sangue giusto” di Francesca Melandri, “Cassandra a Mogadiscio” di Igiaba Scego
A novant’anni dall’inizio della guerra d’Etiopia (1935), che chiuse il ciclo delle conquiste italiane in terre d’Oltremare iniziato nel 1892 con l’acquisizione della baia di Assab, utile a scalare gli altopiani del Corno d’Africa, il buco nero del Novecento – il secolo del negazionismo e della rimozione – è illuminato da un numero eccezionale di studi e di opere che rivisitano il passato dimenticato. La novità oggi è questa, perché puntare ancora tutto sull’amnesia? E se questo non basta, un altro esempio è che negli ultimi dieci anni, nella dozzina dei candidati al Premio Strega – cioè nel mainstream della narrativa italiana – sono entrati romanzi che compongono un prisma di nuove storie sul nostro breve passato coloniale: “Sangue giusto” di Francesca Melandri (2017), “Cassandra a Mogadiscio” di Igiaba Scego (2023) e quest’anno “La signora Meraviglia” di Saba Anglana (2025).
L’editore Franco Angeli ha da poco pubblicato un repertorio bibliografico impressionante, una mappa di quasi duecentocinquanta pagine di ricerche realizzate tra il 2000 e il 2024. Si intitola “Studi storici sul colonialismo italiano. Bibliografia 2000-2024”, è firmata da Nicola Labanca, docente all’Università di Siena e tra i maggiori storici della materia, su cui lavora da più di trent’anni; ha pubblicato una decina di libri: da “In marcia verso Adua” (Einaudi 1993) a “Oltremare. Storia dell’espansione coloniale italiana”, appena tornato in libreria dal Mulino in edizione aggiornata. Introducendo per Angeli la nuova geografia di studi, il professor Labanca fa subito notare che nel nuovo secolo è cambiata la bussola con la quale orientarsi in questo territorio e che i lavori sono non solo tanti, ma anche in sintonia o in dialogo con le maggiori innovazioni storiografiche internazionali. Nel suo saggio introduttivo analizza quello che c’è e quello che manca, motivi di interesse e osservazioni critiche.
Insomma la storia del colonialismo italiano, un tempo talmente negletta che la revisione della vulgata di derivazione fascista cominciò soltanto vent’anni dopo la fine della guerra, davvero non si può più considerare il tabù che è stata nel secolo scorso. Allora era materia per cavalieri solitari.
Come Angelo Del Boca, che da grande inviato della Gazzetta del Popolo e poi del Giorno di Italo Pietra, divenne sul campo studioso di storia coloniale. Viaggiando in Africa e attingendo a nuove fonti, Del Boca aveva scoperto una realtà dei fatti molto diversa da quella che ancora si raccontava in Italia. Oppure come Giorgio Rochat, storico militare e docente all’Università di Torino, che scandagliando archivi allora difficilmente accessibili (erano ancora gestiti da ex funzionari coloniali poco interessati alla trasparenza) aveva trovato le prime tracce dell’indicibile. Le atrocità commesse in Libia ed Etiopia, l’uso massiccio di gas tossici vietati dalle convenzioni internazionali e usati contro le popolazioni civili.
Angelo Del Boca contrastò la narrazione edulcorata del colonialismo guascone, dai modi “gentili”. Il massacro di Debra Libanòs
Angelo Del Boca, autore della storia in sei volumi degli italiani in Africa orientale e in Libia, pubblicata da Laterza tra il 1976 e il 1988, realizzò un monumentale progetto di ricerca e lo difese con ostinazione contro il negazionismo che all’epoca andava forte. Contrastò la narrazione edulcorata di un colonialismo guascone e dai modi “gentili”; smontò il mito degli “italiani brava gente”, battendosi perché l’Italia riconoscesse le sue responsabilità. Sì, nel 1937, dopo un fallito attentato alla sua persona, il viceré d’Etiopia Rodolfo Graziani aveva dato mano libera alla rappresaglia indiscriminata contro la popolazione di Addis Abeba (circa 19 mila vittime). Utilizzando l’attentato, si poté procedere a deportare l’aristocrazia etiope, si fucilarono gli indovini che predicevano la sconfitta italiana, e fu passata per le armi tutta l’élite della Chiesa cristiana monofisita, compresi i professori della scuola di teologia della città conventuale di Debra Libanòs, dove si diceva che gli attentatori si fossero rifugiati. Sì, per stroncare la resistenza contro gli occupanti – l’Etiopia non fu mai veramente sottomessa – furono usati i gas, sterminati interi villaggi e avvelenata l’aria e l’acqua con la conseguenza di affamare la popolazione. Sessanta tonnellate di iprite piovvero sull’altopiano dal cielo. Sì, le leggi “di tutela della razza” furono pensate per le colonie ed entrarono in vigore nel 1937, un anno prima di quelle varate in Italia contro gli ebrei. Proibivano e sanzionavano penalmente i matrimoni misti e il madamato (le relazioni more uxorio con una “madama”, il lessico dice quasi tutto) perché gli italiani non fraternizzassero smarrendo la coscienza della propria superiorità.
Angelo Del Boca è morto nel 2021. Chi voglia farsi un’idea del suo ruvido coraggio lo trova intervistato in “Inconscio italiano”, il documentario realizzato da Luca Guadagnino nel 2011. Una nuova edizione di suoi scritti autobiografici, “Il mio Novecento”, è appena tornata in libreria da Neri Pozza. Del Boca ebbe un antagonista dello stesso calibro: Indro Montanelli, che era partito volontario per l’Africa orientale nel maggio del 1935, quando la campagna d’Etiopia era ormai decisa, e che pervicacemente negò l’uso dei gas. Lui c’era e poteva testimoniare che non era vero.
Nel ’96 l’ammissione pubblica sull’uso dei gas. Due anni dopo Scalfaro, in visita di stato in Etiopia, chiese scusa a nome dell’Italia
Andò avanti così fino al 1996, quando – scaduti i sessant’anni – fu il generale Domenico Corcione, ministro della Difesa del governo tecnico presieduto da Lamberto Dini, a mostrare i documenti e a fare ammissione pubblica sull’uso dei gas, mettendo fine a una disfida pluriennale. Due anni dopo, durante una visita di stato in Etiopia, il presidente della Repubblica Scalfaro ammise le responsabilità e chiese scusa a nome dell’Italia. Come hanno poi fatto le autorità tedesche per le stragi naziste nel nostro paese.
Montanelli ammise di aver avuto torto; e Del Boca spiegò che Indro non poteva averne memoria diretta perché al momento dei lanci d’iprite era ricoverato in un ospedale di Asmara. Erano gentiluomini d’altri tempi: si erano combattuti violentemente, a muso duro, senza mai dubitare della buona fede reciproca. Dopo la morte di Montanelli, è stato Del Boca a curare la nuova edizione di “XX Battaglione eritreo”, con le lettere inedite scritte da Indro alla famiglia mentre si trovava sul fronte etiopico (le ha pubblicate Rizzoli nel 2010). Senza nulla nascondere, né la moglie indigena di quattordici anni, comprata e rivenduta, né l’esaltazione del giovane Montanelli: “Bisogna creare la leggenda della Colonia e della sua guerra, niente verismo, niente De Amicis, niente Galvano”, scriveva ai genitori. “Oggi più di prima, son convinto che bisogna lasciare al suo destino la triste Italia della letteratura amena. Gli uomini di qui devono giganteggiare (…) Qui c’è spazio e possibilità per quindici o venti milioni d’italiani che vi troveranno più durezze, ma anche più soddisfazione che non in via Tornabuoni e stradicciole affini. I coloniali (e per tali intendo non solo i soldati) saranno la nuova aristocrazia del Paese”.
Non lo furono, ma quello era lo spirito del tempo. A sgonfiarlo con i loro romanzi furono due scrittori di grande levatura, che avevano visto le guerre d’Africa con i loro occhi. Ennio Flaiano, reduce dall’Etiopia, raccontò la malinconica accidia del soldato spedito ad ammazzare “a sua insaputa”, spaventato dai contagi sessualmente trasmissibili e da altre minacciose pestilenze. Mario Tobino, che fu ufficiale medico, descrisse la follia sempre in agguato nel suo “Il deserto della Libia”. Con “Tempo di uccidere”, Flaiano vinse il Premio Strega nel 1947 e forse lo spettro di quel soldato sperduto e vile abita ancora il nostro inconscio, ma ormai è soltanto un grande capostipite letterario.
Tra gli scrittori italiani del Novecento, ce ne sono almeno due che debbono il loro profilo cosmopolita alle società d’Oltremare. Sono entrambi di origine triestina: Fausta Cialente, vissuta in Egitto – ad Alessandria – negli anni Trenta e Quaranta, autrice di un ciclo di romanzi levantini tra i quali il bellissimo “Cortile a Cleopatra” ; e Gianfranco Calligarich, nato ad Asmara nel 1939, l’autore de “La malinconia dei Crusich”, storia di una famiglia di viaggiatori approdata in Abissinia ai tempi dell’Impero; e di un romanzo sulla parabola di Vittorio Bottego, l’esploratore italiano che voleva emulare Henry Morton Stanley.
Negli ultimi trent’anni le opere sull’esperienza coloniale italiana si sono poi moltiplicate: dalla giovinezza eritrea di Erminia Dell’Oro, scrittrice appartata scoperta da Piero Gelli, ai romanzi storici di Carlo Lucarelli, Davide Longo, Wu Ming 2. E sono affiorati i dimenticati passaggi in Africa di tante famiglie italiane: dalla Libia di Luciana Capretti in “Ghibli” all’avventura eritrea di una donna di grande temperamento ne “La grande A” di Giulia Caminito. E poi ci sono inchieste letterarie come quella di Tommaso Giartosio in Eritrea, le memorie di partigiani somali ed etiopi, la versione degli ascari, le biografie. Laterza ha appena pubblicato quella di Ilio Barontini, firmata da Marco Ferrari. Barontini fu il leggendario antifascista che andò in Etiopia ad addestrare partigiani, organizzando un governo provvisorio di patrioti riconosciuto dall’Imperatore in esilio. Impossibile citare tutto (perfino chi scrive ha messo una pietruzza in questo frastagliato mosaico), ma certo un ciclo è concluso e oggi a riscrivere la storia, anche nella nostra lingua, sono i figli e i nipoti di chi l’ha vissuta dall’altra parte.
Saba Anglana è un’artista italo somala – cantante, attrice, scrittrice – e nel romanzo che è stato in corsa allo Strega, “La signora Meraviglia”, pubblicato da Sellerio, racconta le peripezie di una zia che risiede tra noi da quarant’anni e che insegue il meraviglioso traguardo della cittadinanza. E’ un percorso accidentato, paradossale, perfino esilarante, su una strada piena di buche, che risveglia la presenza di una figura magica alle radici dell’albero genealogico della famiglia: una ragazza etiope che corre, corre disperatamente per non farsi prendere dal militare che la insegue.
Se parliamo d’inconscio, ora in ballo non c’è più soltanto il nostro: non c’è solo il soldato italiano, partito per la guerra vestito di propaganda e destinato a scontrarsi con una realtà feroce; ora è tra noi anche l’altra metà della storia, quella della ragazza etiope afferrata e crudelmente usata. Vive tra noi il jirro della diaspora somala, il trauma catastrofico della guerra reso così bene da Igiaba Scego in “Cassandra a Mogadiscio”. Uno dei più bei romanzi di questo genere sulla guerra d’Etiopia l’ha scritto Maaza Mengiste, autrice etiope naturalizzata americana, che è stata a lungo, in Italia, a lavorare sulla memoria fotografica e, in Etiopia, sulle fonti orali. Il suo libro, “Il re ombra”, finalista all’International Booker Prize nel 2020, tradotto da Anna Nadotti per Einaudi, racconta la resistenza. Sapevamo che l’Etiopia non fu mai veramente sottomessa e che molte atrocità furono commesse per contrastare la guerriglia, non sapevamo che vi furono donne combattenti, partigiane che sfidarono gli occupanti (e il giogo patriarcale) per la libertà.
Rimettere a posto l’immaginario e le categorie concettuali con cui guardiamo la storia del colonialismo non è semplice, ma ce la possiamo fare. Non siamo più inchiodati alla menzogna o all’amnesia. Allora torniamo alla domanda di partenza: ha ancora un senso insistere sulla memoria bucata? Perché non riposizionarsi, utilizzando la ricerca e la narrativa degli ultimi 25 anni, che sono così ricche? Sono andata a chiederlo al professor Nicola Labanca, che ha disegnato la mappa degli studi del XXI secolo sul colonialismo italiano; e che – tra l’altro – ha appena ricevuto dall’Accademia dei Lincei il premio Feltrinelli per la storia contemporanea.
“Distinguerei subito due livelli”, dice il professor Labanca. “Quello degli studi storici, che sono importanti ma hanno un impatto limitato, e quello del senso comune. Nella coscienza degli italiani il colonialismo è sempre rimasto sotto traccia, un rimosso nel senso psicoanalitico perché non se ne parlava. Fino a metà degli anni Sessanta del Novecento non c’è stata neppure ricerca indipendente e la memoria è affiorata solo in alcuni particolari momenti: nel trentesimo della guerra d’Etiopia, al tempo dei movimenti antimperialisti e anticolonialisti e poi negli anni Novanta con le famose polemiche tra Montanelli e Del Boca”.
Nuove generazioni di africanisti. Dice il prof. Labanca: “Il silenzio è stato sostituito da attività di ricerca effervescenti, ma a volte disarticolate”
Nel saggio di presentazione alla straordinaria bibliografia pubblicata da Franco Angeli, lei parla di nuovi impetuosi studi d’impostazione post-coloniale e de-coloniale, segnalando però una grande frammentazione della ricerca e la mancanza di sintesi. Sono andata a vedere un’anteprima del Museo delle Opacità, a Roma, e ne sono uscita perplessa. “La divulgazione promossa da istituzioni culturali e politiche, da non confondere né con la ricerca storica né con il senso comune degli italiani, è un livello ulteriore. Dalle istituzioni gli italiani dovrebbero imparare qualcosa. La realtà è che il silenzio di cinquant’anni fa per fortuna non c’è più, è stato riempito dall’attività di molteplici attori che si muovono in modo effervescente, ma a volte disarticolato e confuso: chi si occupa di musei non sa cosa fanno gli storici, che a loro volta conoscono poco il lavoro degli antropologi e viceversa. Ciò non toglie che alcuni apporti siano davvero originali e significativi: penso all’africanistica un tempo reticente per non dire connivente – basta ricordare Carlo Giglio e il suo Comitato per l’opera dell’Italia in Africa. Oggi c’è una nuova generazione di africanisti trenta-quarantenni che conoscono le lingue africane e sanno fare ricerca sul campo. Ci sono anche esempi virtuosi come il Museo storico della guerra di Rovereto, che sta realizzando un catalogo di oggetti e collezioni coloniali presenti in Trentino. E lì si comincia a capire quanto i rapporti con l’Oltremare fossero radicati sul territorio italiano”.
Nella nuova edizione del suo libro “Oltremare”, lei scrive che quella del colonialismo è la storia di una relazione, nata dall’impatto tra colonizzatori e colonizzati. Non c’è stato un solo protagonista ed è dall’integrazione di due diverse prospettive storiche che possiamo imparare qualcosa di nuovo. Non mi pare però che questo metodo sia molto praticato: sul colonialismo italiano la necessità di demolire l’autoassoluzione del passato è ancora prevalente.
“Criticare i miti”, prosegue il professor Labanca, “è sano, fa bene: una parte dei nuovi studi si è concentrata su questo, che però non dovrebbe offuscare la ricerca di una visione complessiva e comprensiva delle dinamiche della storia dell’altro. Facciamo un esempio: non tutti gli africani furono resistenti alla conquista, vi furono anche conniventi e collaboratori. Alcuni storici del passato, come Angelo Del Boca e Roberto Battaglia, nei limiti di quanto era allora possibile, hanno cercato di raccontarlo. Alcuni tra i migliori africanisti della generazione successiva, come Anna Maria Gentili, Alessandro Triulzi, Giampaolo Calche Novati, hanno poi messo a fuoco il colonialismo visto dalla parte dell’Africa. Nel caso del dominio coloniale italiano, però, la lettura dell’intreccio tra due diverse vicende storiche non è stata consapevolmente perseguita e una visione d’insieme non è ancora stata del tutto scritta”.
Lei dice anche che il substrato coloniale che abbiamo interiorizzato, e che è entrato nella nostra cultura, oggi conta meno del portato della globalizzazione, tanto che gli italiani sono più razzisti oggi di quanto non lo fossero ieri. Che cosa significa?
L’ingenuità di collegare troppo facilmente il razzismo di oggi al passato coloniale. Labanca parla di “intreccio di ragioni storiche plurisecolari”
“Il colonialismo è una pagina semi-millenaria nella storia d’Europa, va dal Quattrocento al Novecento. Fino all’Ottocento, l’Italia ne è stata partecipe solo in modo indiretto e, nei confronti degli africani, gli italiani nutrivano più o meno le stesse prevenzioni di inglesi, francesi, portoghesi, spagnoli. Ma erano pregiudizi culturali, non fondati sulla difesa di interessi economici, cioè più deboli. Dal 1882, da quando l’Italia ha cominciato a costruire un dominio coloniale diretto, le cose sono cambiate e si sono formati stereotipi razzisti nati dall’esperienza diretta. Finita quella pagina, con la decolonizzazione che arriva negli anni Sessanta, gli italiani hanno continuato a essere razzisti, ma i quattro secoli in cui abbiamo condiviso culturalmente percezioni e pulsioni simili a quelle di altri paesi europei pesano non meno del nostro breve passato di dominio coloniale diretto. La globalizzazione e le grandi migrazioni hanno agito su questo substrato. Oggi sarebbe ingenuo dire che gli italiani non vogliono accorciare i tempi di concessione della cittadinanza agli immigrati a causa del loro passato coloniale. Se votano no al referendum è per un intreccio di ragioni storiche plurisecolari sulle quali hanno fatto irruzione fenomeni nuovi. Tornare sempre e solo al colonialismo lascia in ombra dinamiche internazionali e rapporti di potere inter-etnici odierni che contano molto di più”.
Una parte dei nuovi studi sul colonialismo italiano insiste sull’idea che l’Italia, con la sua identità nazionale fragile e incompiuta, riuscì a portarla a termine grazie alle guerre coloniali. E dunque anche per questo è difficile staccarsi da quell’esperienza storica. Lei però non ne sembra molto convinto, perché?
“Durante il periodo coloniale, lo stato italiano prima liberale e poi fascista ha insistito su questo con la propaganda perché riteneva contribuisse a rafforzare la nazione, ma dopo il 1943 tutto questo è scomparso, mentre negli stati europei con territori oltremare è andato avanti anche dopo la fine della Seconda guerra mondiale. Quindi attenzione a enfatizzare l’impatto dell’esperienza coloniale nella costruzione della nazione italiana. Apprezzo molto questi nuovi studi e riconosco il valore del loro apporto, ma tengo anche alla precisione: e non si può sopravvalutare l’influenza della propaganda dell’epoca, quando allora proprio i colonialisti erano assai insoddisfatti della coscienza coloniale degli italiani”.