Foto Getty

Magazine

Estate con la regina delle nevi

Annalena Benini

Se fosse stata in Grecia, forse non avrebbe rapito bambini. La strana voglia che hanno tutti di villeggiare al nord

Qual è la favola più spaventosa che tu abbia mai letto, nell’antichità? mi ha chiesto mio figlio, per il quale il termine spaventoso ha il preciso significato di: meraviglioso. E l’antichità sono gli anni Ottanta del secolo scorso. In effetti è così. Tra le mille domande a cui non so cosa rispondere (che cos’è l’antimateria? Perché Han Kang non vuole che i suoi libri vengano tradotti in ebraico? Mi spieghi l’ipotesi di Riemann?), questa è la più facile: la Regina delle Nevi è senza dubbio la favola più spaventosa che io abbia mai letto. La storia d’infanzia che mi si è conficcata di più nella memoria. Hans Christian Andersen, il mondo freddo, il bambino a cui entra un pezzetto di specchio nell’occhio e gli si gela il cuore, diventa indifferente. La regina lo porta nel suo regno (sopra una slitta meravigliosa) cancellandogli la memoria e condannandolo a cercare di comporre con frammenti di cubetti di ghiaccio la parola: eternità, sempre mezzo assiderato (finché arriva Gerda e le sue lacrime gli sciolgono il cuore). L’ho letta un centinaio di volte, laggiù nei tempi antichi, e rabbrividivo di paura e solitudine.

Mi veniva freddo alle mani. Soprattutto per la scena, che ricordo sul libro illustrato, delle parole composte con i cubetti di ghiaccio in ginocchio sul lago ghiacciato: condanna spaventosa e meravigliosa insieme. “Se con questi ghiaccioli riesci a formare la parola eternità, può anche darsi che ti lasci libero”, dice la Regina. E’ tutto molto diverso dai fratelli Grimm: da Cappuccetto rosso, da Pollicino, dalla Bella addormentata nel bosco, dalle streghe che vogliono cucinare i bambini: in Andersen la crudeltà di quella regina ha a che fare con il silenzio, con un cuore ghiacciato, con la perdita di qualcosa e con la diversità. Anche con il vuoto intorno. Nelle storie di Hans Christian Andersen tutti perdono qualcosa: la Sirenetta perde la voce, la Piccola fiammiferaia perde il calore, muore di freddo. Scarpette rosse: le amputano i piedi. E poi il Brutto anatroccolo, il Soldatino di stagno: che strazio e che novità, che salto gigantesco di racconto, di ambientazione, di inquietudine e di macabro, con il lieto fine che, quando c’è, è sempre ambiguo. Charles Dickens impazzì per Andersen, lo accolse in Inghilterra con tutti gli onori, salvo poi trovarlo un ospite insopportabile, disturbante, non vedeva l’ora che se ne andasse e smise anche di rispondere alle sue lettere. Forse per quella difficile sospensione tra due mondi, il grande Nord e il continente? Forse perché i miti è meglio non incontrarli mai, e tantomeno ospitarli dentro casa per settimane e trovarsi di fronte alle loro fissazioni.

Comunque, con la Regina delle Nevi per la prima volta mio figlio mi ha quasi ascoltato e ha trovato spaventoso, cioè meraviglioso, il Nord, il racconto dei ghiacci, il cielo che non finisce mai, il silenzio nel castello. Abbiamo comprato una quantità notevole di romanzi Iperborea, anche, per entrare meglio nel racconto del Nord. Purtroppo da allora (ma questo non è vero: da molto prima della Regina delle Nevi, che lui continua a confondere con “Frozen”) mio figlio ha iniziato a schifare la Grecia e a chiedere di andare in un posto a lui più congeniale: non a Copenaghen, troppo in basso, troppo poco, ma proprio al Circolo polare artico. Del resto la regina delle Nevi vive in Lapponia. Queste, in sintesi, sono le ragioni letterarie e invernali di una scelta estiva che credevo controcorrente e solitaria: l’unica famiglia che invece delle Cicladi sceglie le isole Lofoten. Mi vedevo nei panni di una regina delle nevi nervosissima e spietata (sono nervosissima per non essere andata in Grecia), che cammina chilometri e chilometri senza incontrare mai nessuno e compone la parola “eternità” con i cubetti di ghiaccio, semi assiderata ma piena di alterigia. Niente costumi da bagno, niente scottature, niente taramosalada e tavoli di legno sotto gli alberi. (Per forza la regina delle Nevi era sempre di pessimo umore e andava in giro a rapire i bambini).

Temo che non sarà così (nervosismo a parte), temo che non appena rispondo alla domanda che nessuno purtroppo ha mai la delicatezza di evitare in queste settimane, dove vai in vacanza? e dico velocemente, guardando in basso: giù al Nord, tutti rispondono: ah certo, anche io, anche mio cugino, anche la mia capa, dove altro vuoi andare sennò? Danimarca, Svezia, Islanda, Norvegia, fino a Capo Nord: vanno tutti lì, o sono appena tornati da lì. Domenica scorsa, a una tavolata di parenti molto anni Novanta (nel senso che fumavano tutti), mio nipote adolescente ha detto: ieri ero nei fiordi in Norvegia, fa caldo come a Milano ed è più incasinato di Mykonos. La sua voce si è persa dentro gli anelli di fumo. Io non ho registrato l’idea della folla al Nord, tanto in qualunque posto io vada mi succede la stessa cosa, almeno la prima notte, mi faccio sempre un’unica domanda: ma cosa son venuta a fare? però la notizia non mi ha lasciato indifferente, ho fatto dei calcoli piuttosto arbitrari e allarmanti e sono giunta a una conclusione piena di rabbia: significa che, quest’anno, la Grecia è vuota? Spiagge deserte, taverne vuote, nessuno che ruba a nessuno l’ombra sotto una tamerice. Aerei vuoti, traghetti vuoti, l’Acropoli senza file per entrare, le isole selvagge e sconvolgenti come quando ci andava Simone de Beauvoir con Sartre. Sotto gli alberi, tanti bei tavoli di legno con tovaglie di carta e nessuno che abbia ancora ordinato il saganaki e quel vino bianco leggero, acquoso, l’unico che io possa bere senza sentire la morte imminente. Semplici ma bellissime stanze sulla spiaggia a trenta euro a notte, con terrazze ul mare in cui viene offerto yogurt con miele. Vento greco che non viene assorbito dall’eccesso di umanità. Zanzare inesistenti, sono partite tutte per la Norvegia. Sono ancora più nervosa al pensiero di quello che mi perdo. Penso continuamente a quella testa di Afrodite al museo dell’Acropoli, sembra che pianga e che le si sia sciolto il mascara perché in più di duemila anni le ciglia in bronzo si sono ossidate: lo so, Afrodite, ma tu in realtà piangi per me, che vado giù al Nord e non torno da te.

Mi trascino dal tabaccaio a pagare una multa, mi dice che tra poco chiude per ferie e va in Islanda. Perché in Islanda? Dove altro vuoi andare? mi risponde. Non lo vedi com’è là fuori? e mi indica l’asfalto del marciapiede sul quale ho appena lasciato l’impronta dei miei tacchi. Da Roma, in effetti, è quasi più vicina la Groenlandia di Pinzolo. Dove altro vuoi andare? ripetono tutti intorno a me, come in un coro greco (mi viene da piangere al suono della parola “greco”).

Una mia cara amica da anni ci tormenta con le fotografie e con i ricordi del suo unico viaggio in Islanda, dice che è stato il più bello della sua vita, da anni ci implora di andare tutti insieme in Islanda invece che in Grecia, da anni non le rispondiamo nemmeno, proprio ci giriamo dall’altra parte sbuffando e diciamo a chiunque: kalìmera. Fino a quest’estate, quando è diventato evidente che ha ragione lei: finiremo tutti in Islanda, sui geyser. O alle isole Lofoten, dove lei prevede un boom immobiliare. Compriamo casa lì, dice, con il riscaldamento globale presto sarà come avere casa a Paxos, il futuro delle case vacanza è al Nord. A parte che non possiamo permetterci neanche un garage a Ladispoli, ma che cosa significa rispetto alle nostre vite? Che mangeremo carne di una piccola renna? Che andrò a dormire con il sole ancora alto? Che d’ora in poi metterò in valigia quelle orribili scarpe con i lacci e la suola antiscivolo? Che comprerò del salmone affumicato sottovuoto?

La valigia è una questione importante nelle vacanze al Nord, perché il rischio è quello di credere che farà freddo. Come Totò e Peppino che arrivano a Milano con i colbacchi, le pellicce e i guanti di montone, e Totò dice: vestito da milanese fai ridere. Il guaio è che tutti dicono: bisogna vestirsi a strati. Come le cipolle. Che brutta immagine, di nuovo mi viene da piangere. Perché nella sostanza dicono, mentre si raccomandano di portare qualcosa di impermeabile ma anche qualcosa di pesante ma anche qualcosa di leggero: cazzi vostri che non andate in Grecia. Cazzi vostri che dovete passare di corsa da Decathlon a comprare quello che vi manca, tipo la maglietta termica e una camicia di flanella.

In valigia come atto di ribellione alla regina delle nevi, troppo elegante per me, e alle camicie di flanella e alle magliette termiche, ho messo le solite cose, perfino un costume da bagno perché voglio proprio vedere cosa si intende, oggi, per mare ghiacciato. Se riesco a immergermi, anche per pochi secondi, forse si scioglierà il pezzetto di ghiaccio che mi è entrato nell’occhio e mi ha gelato il cuore? Più probabilmente mi verrà la bronchite, ma la parte di bagaglio non occupata dalle magliette di termiche è piena di medicine. Il problema è mio, lo so. Il problema è mio che non so né partire né restare, e se parto vorrei che ci fosse sempre il sirtaki ad accogliermi. “Il turismo è l’arte della delusione”, ha scritto Robert Louis Stevenson, che comunque è cresciuto in Scozia e forse non è mai stato in Grecia. Io però ho fiducia anche nei mari ghiacciati, soprattutto in quelli dentro di noi che a un certo punto vengono spaccati da un’ascia. Voglio proprio vedere, Regina delle Nevi, se sei ancora così algida. O se, come Afrodite, in tutti questi anni ti sei lasciata scappare una lacrima che ha sciolto il tuo cuore di ghiaccio.

Di più su questi argomenti: