
Stéphane Mallarmé con alle spalle un pastello di Manet fra il 1895 e il ’96
Magazine
Mallarmé a pezzi
Libri, lettere, oggetti presso l’antiquario Vrain. Così ci si proietta nella vita del professore che, in segreto, cambiava il corso della poesia
La prima voce dell’elenco è anche una delle più care. Si tratta dell’esemplare numero 88 della prima edizione di “Le corbeau. The raven”, di Edgar Allan Poe, tradotto da Stéphane Mallarmé, “con cinque illustrazioni fuori testo litografate di Edouard Manet”, edito a Parigi da Richard Lesclide nel 1875. Sulla parte destra, la copertina reca la dedica autografa a matita del pittore a un personaggio che i frequentatori del Musée d’Orsay conoscono bene: “À mon ami le Dr Gachet”, cioè “le bon docteur Gachet” dei due ritratti di Vincent van Gogh, quell’uomo con la giacca da marinaio e una gran massa di capelli biondo Tiziano che spuntano dal berretto e che fu psichiatra, gran protettore di pittori del “fuori salone” di allora come Paul Cézanne e Claude Manet nonché pessimo pittore della domenica. Quei trent’anni di storia dell’arte e della letteratura francese racchiusi in trenta centimetri quadrati di cartoncino inscritto in rosso costano 120 mila euro e non sono trattabili. Però, mi dice l’editore antiquario Jean Claude Vrain che potrebbe ritoccare il prezzo del lotto numero 105 sui quali si è appuntato il mio interesse, per vecchi trascorsi universitari. E’ una lettera datata 5 maggio 1891 del “padre del simbolismo”, l’unica definizione nota più o meno a tutti di questo poeta che, se al liceo fossero meno gnucchi con i programmi, potrebbe essere proposto invece come il “padre del rap” (provate a negare che il Fedez di “dentro i miei occhi / guerra dei mondi” non abbia qualche ascendente in “Mi contemplo e mi vedo angelo! e muoio, e torno”) a Édouard Dujardin, autore di “Les lauriers sont coupés”, in italiano “I lauri senza fronde”, che James Joyce riconobbe come l’inventore del monologo interiore e di cui tentò sempre di diventare intimo, invano.
Il “padre del simbolismo”, se al liceo fossero meno gnucchi con i programmi, potrebbe essere proposto invece come il “padre del rap”
“Mio caro amico”, scrive Mallarmé a Dujardin, giocando abilmente sul cognome dello scrittore, in quegli anni direttore della “Revue wagnérienne” e che gli ha affidato una rubrica, ricevendo la prima copia di “Antonia, tragédie moderne”, uno dei primissimi drammi in verso libero, e “La comédie des amours”, pubblicate entrambe da Vanier: “Eccovi diventato un primitivo, un vero giardino (du vrai jardin), fra tutti questi fiori di stelo ineguale, alcuni ad altezza del piede, fra le mani degli altri, i vostri versi”. Sono due paginette su cartoncino, costano diecimila euro, Vrain mi dice che potrebbe scendere a settemila. Per il momento mi accontento del catalogo, sessanta euro, visto e desiderato la sera prima osservandolo nella vetrina, unico volume esposto in sei copie, mentre riaccompagnavo un’amica che abita proprio di fronte: la lista dei lotti mi viene stampata a parte dall’assistente. Vrain non ha avuto una formazione letteraria, tutt’altro; a diciassette anni, racconta, era già tornitore in fabbrica, e infatti parla di soldi con la circospezione e il riserbo di chi è nato povero. Per trattare i soldi con noncuranza, guardandoli in faccia, prendendone le distanze, bisogna averli sempre avuti.
Il catalogo è una meraviglia di immagini e di suggestioni (“ho chiamato grandi studiosi, sa?”): quasi quattrocento pagine frutto di un numero spropositato di anni di ricerca fra eredi vicini e lontani (“gli ultimi? Di cognome fanno Paysant”), amici, corrispondenti, critici. Schegge di vita di un periodo irresistibile e fondamentale per la costruzione della cultura contemporanea, tutto in vendita: 322 lotti, non ho fatto il conto ma a occhio e croce, incluse quisquilie come il biglietto da visita di Auguste Renoir a “madame Mallarmé con la più grande ammirazione” o una strabiliante acquaforte di prova del celebre ritratto di Mallarmé firmata da Paul Gauguin (“à l’ami aurier, au poète”), l’ammontare di questo patrimonio documentale dovrebbe superare il milione di euro. Non si finisce mai di sfogliare e di stabilire nuove connessioni, piccoli episodi che anche lo studio accanito, modello Giovanni Macchia, renderebbe impossibile: avere sottomano tutte quelle carte scritte, quelle foto, quei bibelot, dà al tempo stesso un senso di vertigine e di spaesamento. Ecco una foto all’albumina della celebre “grande orizzontale” Méry Laurent, “garantie d’après nature” cioè dal vivo, ancora giovanissima, i capelli biondi raccolti a corona sul capo, i seni lattei esposti quasi interamente, una semplice croce appesa al collo con un nastrino di velluto; è lei la “pavoncella” che affiancò il poeta per tutta la seconda fase della vita, sostituendo come confidente la moglie Marie caduta in una depressione irreversibile a causa della morte del figlio Anatole, ed ecco un ricco fascio di lettere di Françoise Stéphanie Mallarmé detta Geneviève o “Vève”, la proprietaria del celebre ventaglio che nella poesia di suo padre frange i confini fra il mondo del reale e del sublime. E ancora, si materializza un esemplare delle “Chanson de Bilitis” di Pierre Louys, quel geniale falso storico poetico sull’amore saffico che ispirò Debussy, George Barbier e anche la prima associazione lesbica statunitense, capitanata dalla fondatrice del genere fantasy moderno, Marion Zimmer Bradley: la copia, naturalmente in prima edizione, anno 1895, in vendita a 55 mila euro, apparteneva a André Gide e include una lettera autografa di Mallarmé all’amico Pierre, in cui mostra di aver intuito il giochetto, ma anche i molti meriti di quell’opera fintamente tradotta dal greco. Fra i tesori, emerge la prima lettera di Mallarmé a Robert de Montesquiou datata novembre 1878, il modello del barone di Charlus proustiano che all’epoca è ventiquattrenne, gioca a fare il dandy non avendo ancora trovato la propria vena poetica e va cercando presso il traduttore l’edizione del “Corvo” di Poe pubblicata appunto tre anni prima, che si è venduta malissimo, tanto che Lesclide ha cercato di rifilare a Mallarmé le molte copie rimaste in magazzino, senza successo causa cronica mancanza di fondi e anche un po’ di amarezza per quel testo che nessuno capirà ancora per un bel pezzo. Montesquiou pagherà una singola copia dieci franchi; sarà l’inizio di un’amicizia e di molte serate trascorse nel celebre salotto al numero 87 della rue de Rome.
Ecco una foto all’albumina della celebre “grande orizzontale” Méry Laurent, la “pavoncella” che affiancò il poeta nella seconda fase della vita
Tanti testi sono stati conservati per via delle litografie e delle prove d’artista che contengono, siano collaborazioni coeve (Maurice Denis, Odilon Redon, James Whistler, bisogna riconoscergli un gusto avanguardista perfetto) o postume, come nel caso di Matisse e del celebre “Coup de dés” di Broodthaers. E che dire del pedigree di Percy Bysshe Shelley “printed for private distribution” nel 1880, dono di Harry Buxton Forman, bibliografo, grande studioso di Keats e dello stesso Shelley e anche grande falsario di edizioni originali, come si sarebbe scoperto alla sua morte. Chissà che cosa avrebbe detto se l’avesse saputo, Mallarmé, il professore di inglese senza prospettive di carriera che stentava a combinare due rinfreschi per i suoi martedì letterari, che anche la doppia scatolina in metallo cesellato in cui conservava il tè, uno squisito oggettino orientalista, sarebbe diventata un oggetto degno di venerazione e che i collezionisti dei suoi memorabilia nel XXI secolo sarebbero stati “soprattutto giapponesi” come dice Vrain e c’è da crederci, nessuno può apprezzare l’ermetismo occidentale più di chi è cresciuto nel culto degli haiku, concentrazione poetica di esperienze e momenti immaginifici, ma nell’elenco degli appassionati celebrato nell’introduzione compaiono Dominique de Villepin, Paul Morel e Pierre Bergé. Costa quattromila euro la sua boccetta per il profumo in vetro opaline (quella iena ingrata di Huysmans ha lasciato scritto che fosse un uomo sporco, ma va detto che entrambi si contendevano i favori di Méry), che è oggetto mallarmeano almeno quanto il ventaglio, il tagliacarte, il calamaio, tutti mezzi per penetrare “l’inconnu”, portali per la terza dimensione, chiavi in grado di proiettare il loro possessore in un mondo diverso.
La boccetta per il profumo in vetro opaline, oggetto mallarmeano almeno quanto il ventaglio e il calamaio, tutti mezzi per penetrare “l’inconnu”
E infatti, il tempo si ferma in questa mattinata in cui ogni riflessione è sospesa e ogni cosa ha un prezzo, inclusa la lettera di richiesta di supporto editoriale del nostro eroe all’amico editore di Avignone, Joseph Roumanille, per “La dernière mode. Gazette du monde et de la famille”, il suo surreale tentativo di darsi all’editoria di stile con una rivista che venne pubblicata per soli otto numeri nell’autunno del 1874 e della quale mi viene proposta la copertina del numero zero (fino a oggi inedita, come ogni cultore possiedo l’edizione Gallimard in copia anastatica) e la lettera stessa a 25 mila euro: “Quello che potrai fare presso la tua clientela in favore di questa pubblicazione (il solo giornale di moda redatto da letterati), fallo per favore”, scrive il poeta all’amico editore del sud, e mi scappa una risata perché, si tratti di letterati veri, falsi, presunti o di filosofi improvvisati che affastellano sui palcoscenici parole senza senso e luoghi comuni per la gioia dei follower e della community che dovrebbe poi comprare cinture e magliette, con la moda noi a est dell’Atlantico siamo sempre allo stesso punto, e cioè a giustificare la sua esistenza, a tentare di cancellare la sua presunta frivolezza con lo sfoggio, vero o apparente, di cultura: “Inutile che ti dica che il suo successo mi sta a cuore”. A parte il direttore, Charles Wendelen, che firmava la rivista con lo pseudonimo di “Marasquin”, Mallarmé ne era l’unico redattore; era lui “Marguerite de Ponti, redactrice de mode”, sempre lui “Ix”, cronista mondano, ancora lui “le chef de bouche Brebant”, di professione cuoco.
A Mallarmé, mi racconta Vrain levandosi all’improvviso la coppoletta stile Charles Aznavour che porta calcata sulla testa, forse per proteggere la calvizie dall’aria condizionata, è arrivato nel 2021, dopo aver “festeggiato alla mia maniera, con una mostra al municipio del Sesto Arrondissement”, il bicentenario della nascita di Charles Baudelaire, accompagnandola a una serie di oggetti, lettere e documenti di collezioni private (il catalogo, ponderoso, è ancora in vendita ma a prezzo dimezzato, 30 euro). Nel 2022, sono seguiti due cataloghi su Marcel Proust al quale, da bravo seguace di Anatole France, Mallarmé non garbava per niente (non piaceva, sigh, neanche a Gustave Flaubert che nel 1876 scriveva esasperato alla nipote di aver ricevuto “un altro regalo dal FAVNO” (era il “Vathek”). Sarebbe dovuto arrivare il XX secolo, la psicoanalisi, perché l’autore del “lancio dei dadi che mai abolirà il caso” trovasse la sua fortuna critica, in particolare fra i filosofi, da Sartre a Foucault, da Kristeva a Derrida. “Io mi sono avvicinato tardi alla sua poesia, lo ammetto”, dice Vrain, “progredendo passo passo attraverso quest’opera che ha scoraggiato intere generazioni di lettori, grazie alla musicalità del verso”, che è dopotutto l’unico modo per capirlo davvero, “ma anche leggendo di lui, del suo personaggio. Mi sono affezionato a questo professore, pressoché sconosciuto dai suoi superiori, che ogni martedì sera si trasformava in oratore brillante, in uomo di fascino che inviava alle signore frutta candita accompagnata da versi galanti e, nel segreto del suo studiolo, cambiava il corso della poesia”.
Un oratore brillante “ogni martedì sera”, “uomo di fascino che inviava alle signore frutta candita accompagnata da versi galanti”
Dapprima qualche lettera, trovata come sempre accade quasi per caso e per delizia, quindi una piccola ossessione, sviluppata grazie all’incontro con una delle ultime pronipoti di Mallarmé, Jacqueline Paysant, co-erede della casa di Valvins, rifugio estivo di Mallarmé, attraverso la famiglia acquisita di Geneviève, i Bonniot. “Andavo a trovarla diverse volte all’anno a Nogent-sur-Maine. Il rituale era immutabile. Le portavo dei cioccolatini, ma più spesso dei fiori, che venivano subito disposti in un vaso, e commentati. Poi, iniziavano gli aneddoti, accompagnati dall’esibizione degli oggetti appartenuti al poeta”. Lettere, manoscritti, copie autografe e dedicate, “oggetti diversi”, e “alentours”, cioè tracce della vita di Mallarmé nell’opera delle sue relazioni: l’esemplare delle “Divagations” offerto a Alfred Jarry, l’album amicorum di Méry Laurent che contiene ottantanove poesie autografe e dei disegni di Mallarmé, niente male. Gli sono sfuggiti, per sua stessa ammissione, la prima copia del “Coup de dés”, finito in un’altra collezione, e il ritratto di Vève di Whistler, che si può ammirare nel museo di Valvins. Al momento, Vrain sta lavorando su Victor Hugo.