
Veduta della collettiva “Spazio umano”, nella chiesa di San Mamiliano a Palermo, con opere di Francesco Lauretta e Urs Lüthi (foto Vincenzo Pipitone)
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Arte di Fede. Oltre le installazioni nelle chiese sconsacrate
Opere contemporanee e liturgia trovano una nuova dimensione di dialogo. Silenzio e attesa
Molti luoghi di culto, dedicati nei secoli scorsi alla preghiera, oggi ospitano installazioni artistiche. Le chiese, una volta affollate di fedeli, ora spesso vuote, sono diventate i nuovi templi del contemporaneo? Per diversi secoli, la religione ha pervaso di una comune spiritualità la cultura europea: non solo fede, ma ordine simbolico e politico. Con Carlo Magno, incoronato imperatore da Leone III, l’Impero diventa “Sacro romano impero” e per secoli la Chiesa è stata un elemento centrale dell’identità europea. Oggi quella coesione si è persa. La devozione si è frammentata, il sacro si è ritirato dalla liturgia condivisa per riaffiorare in forme private, intermittenti, soggettive. E mentre l’Europa fatica a tenersi unita – tra l’invasione dell’Ucraina, il ritorno dei nazionalismi e le spinte protezioniste dell’America di Trump – l’arte contemporanea torna a varcare le soglie del sacro ma parlando un’altra lingua.
Il workshop interdisciplinare “This Is Not a Church”, un’esplorazione del ruolo che gli edifici religiosi possono avere nel futuro urbano della Ruhr
E’ in questo contesto che si inserisce uno dei progetti più interessanti del ciclo di avvicinamento alla prossima Biennale nomade europea di arte contemporanea, Manifesta 16, che si terrà nella regione tedesca della Ruhr nel 2026, ex distretto minerario-siderurgico in trasformazione, regione testimone di come la cultura possa diventare motore di rinascita per territori segnati dalla deindustrializzazione. Come attività di preparazione alla mostra è stato realizzato un laboratorio di ascolto e progettazione condivisa: il workshop interdisciplinare This Is Not a Church, organizzato con la TU Dortmund, una delle principali università tecniche della Germania, coordinato da Josep Bohigas. Architetto e urbanista catalano, Bohigas è il First Creative Mediator di Manifesta 16, ruolo ibrido, che unisce creatività, pianificazione urbana e mediazione culturale. Studenti, architetti, abitanti dei quartieri e professionisti del territorio sono stati coinvolti in un’esplorazione collettiva del ruolo che gli edifici religiosi, oggi spesso abbandonati o riconvertiti, possono avere nel futuro urbano della Ruhr.
Migliaia di residenti sono stati coinvolti in un processo di co-progettazione che culminerà in una open call per iniziative artistiche e sociali locali. E’ una governance bottom-up, quella che caratterizza Manifesta, che intende restituire all’arte la sua dimensione comunitaria e rituale di partecipazione. Un approccio che mette al centro il territorio prima della programmazione artistica, facendo della Biennale non solo un evento espositivo, ma un processo sociale e culturale in divenire. Il progetto mette in evidenza un elemento comune a molte città europee dove le chiese, un tempo centrali per la vita sociale e spirituale, oggi sono in crisi: chiuse, dismesse, riutilizzate. Ma non cancellate. Il workshop ha posto una domanda di fondo: cosa possono diventare oggi questi edifici, nel cuore delle comunità, in un’epoca in cui la religione ha perso centralità ma resta viva la domanda di senso e di appartenenza? L’obiettivo non è trasformare il sacro in museo, ma riscriverne i confini: cercare nuovi luoghi di relazione e convivenza, a partire dagli spazi che ne custodiscono la memoria.
In molte città della Ruhr, le chiese erano al centro di quartieri costruiti a misura di passo, anticipando il modello della “città dei cinque minuti”: luoghi dove culto, servizi e relazioni convivevano in uno spazio accessibile e integrato. Recuperare questi edifici oggi significa rilanciare una vera e propria “rivoluzione della prossimità”, puntando sulla riattivazione delle funzioni sociali dei luoghi. Un modello che richiama l’esperienza degli oratori italiani, nati dall’intuizione di don Bosco a metà Ottocento: spazi educativi e sociali, oltre che religiosi, centrali per l’aggregazione giovanile. Un riferimento storico che, pur nella distanza, può suggerire pratiche comunitarie attuali. Dalla Germania che oggi interroga i suoi spazi religiosi a quella medievale che ha dato voce a una delle figure più radicali della mistica cristiana, il sacro torna a essere questione viva. La scorsa primavera alla Biennale Arte di Venezia, l’Archivio storico ha dedicato un progetto speciale,
La Biennale della Parola, a Meister Eckhart, mistico domenicano nato in Turingia e contemporaneo di Dante. Pensatore liminare, capace di spogliare il linguaggio teologico fino a renderlo silenzio e visione, Eckhart fu messo sotto processo per eresia e alcune sue tesi furono condannate come sospette ma molti dei più importanti filosofi contemporanei, come Heidegger, hanno attinto dalle vette del suo pensiero perché “la contemporaneità è la capacità di generare futuro”, come ha affermato Pietrangelo Buttafuoco, presidente della Biennale di Venezia. Il commento di Meister Eckhart al Vangelo di Giovanni è diventato uno spettacolo corale diretto da Antonello Pocetti, allestito nel Portego delle colonne della Scuola grande di San Marco, oggi Ospedale civile SS. Giovanni e Paolo. Le scene di Antonino Viola, i video di Andrew Quinn e il suono di Thierry Coduys hanno trasformato il progetto in un’opera multimediale. Gli attori – Federica Fracassi, Leda Kreider, Dario Aita – alternavano latino e italiano, accompagnati dal canto gregoriano del Coro della Cappella marciana. Il pubblico, raccolto su una pedana che evocava la schola cantorum medievale, era avvolto da parole, immagini e suoni, immerso in uno spazio senza tempo, in cui antico e contemporaneo si rispecchiavano a vicenda.
In questo contesto, si apre una rotta parallela, che ha avuto meno attenzione mediatica rispetto a due grandi eventi culturali internazionali come la Biennale e Manifesta, ma non per questo è meno rilevante. E’ la via dell’arte contemporanea che entra in chiese ancora frequentate, aperte al culto. Qui l’artista si misura con il rito, la comunità, la presenza quotidiana. Non si tratta di installazioni decorative o gesti simbolici, ma di opere che abitano il tempo liturgico, si confrontano con l’attesa, il silenzio, la soglia tra visibile e invisibile. Una pratica più discreta, ma forse per questo più radicale. In Europa l’esperimento ha una profondità storica: nel 1949 Matisse disegna la Chapelle du Rosaire a Vence, in Costa Azzurra. Qui vetrate, mosaici, alta liturgia e oggetti sacri convergono in un’opera totale che ancora oggi vive come luogo di preghiera gestito dalle suore domenicane – l’ultimo capolavoro spirituale del maestro. Negli Stati Uniti, uno degli esempi più celebri si trova a New York, realizzato alla fine degli anni Settanta da Louise Nevelson che progetta la Cappella del Buon Pastore all’interno della chiesa luterana di St. Peter’s: un’oasi in legno bianco, intima e raccolta, pensata non per stupire ma per offrire un raccoglimento silenzioso. Nevelson spiegava: “Se le persone riescono a vivere un momento di pace, lo porteranno con sé …”, mostrando una concezione radicale dell’arte come spazio interiore, non rappresentazione.
Qualche anno prima a Houston, in Texas, i collezionisti John e Dominique de Menil commissionano al celebre artista astrattista Mark Rothko un santuario laico dedicato alla meditazione e all’ispirazione. Rothko ha seguito da vicino ogni dettaglio del progetto architettonico: dalla forma geometrica dell’edificio alla qualità della luce, pensata per interagire con le sue opere. Al centro della cappella ci sono quattordici grandi tele dipinte in tonalità scure e profonde, che non si offrono alla vista ma vi attirano dentro, come spazi interiori da attraversare. La cappella nasce come luogo sacro ma anche come centro di aggregazione e ancora oggi ospita incontri, letture e programmi dedicati ai diritti umani e alla giustizia sociale. Negli anni ha accolto Nelson Mandela e il Dalai Lama, tra gli altri. Anche oggi, dopo il restauro seguito ai danni dell’uragano Beryl dell’anno scorso, la Rothko Chapel resta un luogo di riferimento per la comunità, con programmi che guardano all’interreligioso e al sociale.
La chiesa di St. James’s a Piccadilly ospita regolarmente interventi di artisti contemporanei. Non una galleria, ma un luogo vivo
Nel cuore di Londra, accanto alla Royal Academy of Arts, la chiesa di St. James’s a Piccadilly si è affermata come vera “Artists’ Church”, ospitando regolarmente interventi di artisti contemporanei all’interno di una programmata attività dedicate alla creatività in tutte le sue forme. In una metropoli dove costruire comunità non è scontato, il connubio fra arte e liturgia diventa occasione di ritrovo e riflessione civica. Ad esempio, nel 2022, la chiesa ha commissionato un’opera permanente nel santuario all’artista Jesse Darling – poi vincitore del più importante premio d’arte inglese, il Turner Prize, l’anno dopo – ma la presenza artistica va oltre, lungo l’intero ciclo liturgico, nel dialogo con lo spazio sacro. Non una galleria, ma un luogo vivo, dove l’estetica non interrompe il rito: lo arricchisce, lo interroga, lo rende contemporaneo. Le tensioni tra arte contemporanea e liturgia non sono una scoperta, ma oggi sembrano rivelare qualcosa di nuovo. Laddove la Chiesa domanda ordine, l’arte propone frattura; dove il rito ripete, l’opera frammenta. Ma è proprio in questo scarto, in questa incompiutezza, che può nascere un’altra forma di dialogo: non conciliato, ma vivo. E’ forse in questa stessa prospettiva, che accetta il conflitto come possibilità generativa, che va letto anche l’interesse crescente del Vaticano per l’arte contemporanea e i suoi linguaggi. Alla scorsa Biennale Arte di Venezia, ad esempio, il Padiglione della Santa Sede è stato allestito alla Giudecca, all’interno della casa di reclusione femminile: un progetto costruito su un dialogo diretto tra detenute e artisti, che ha dato forma a un modello di arte “con i miei occhi” – fondata su parola, sguardo e testimonianza vissuta dentro il carcere.
Il dicastero per la Cultura del Vaticano ha promosso “Conciliazione 5”, una “galleria di strada” curata da Cristiana Perrella
Quest’anno, in occasione del Giubileo 2025, il dicastero per la Cultura retto dal cardinale de Mendonça ha promosso Conciliazione 5, una “galleria di strada” lungo la via della Conciliazione che porta a San Pietro, curata da Cristiana Perrella. Da poche settimane è allestita l’opera dell’artista italo-albanese Adrian Paci, ispirata alla celebre frase del poeta inglese John Donne, scritta nel 1624: “Nessun uomo è un’isola”. Un’affermazione che risuona oggi come invito all’interconnessione, al riconoscimento dell’altro come parte di un unico insieme. A Palermo, il rapporto tra arte contemporanea e patrimonio sacro ha assunto da tempo forme originali, radicate nel tessuto urbano e nella storia della città. Un esempio emblematico è l’apertura al pubblico degli oratori barocchi decorati da Giacomo Serpotta, promossa dagli Amici dei Musei Siciliani oltre vent’anni fa su impulso di Bernardo Tortorici di Raffadali: luoghi straordinari come l’oratorio di San Lorenzo, segnato dalla perdita della Natività di Caravaggio, rubata nel 1969. Un’assenza trasformata in possibilità: ogni anno, un artista contemporaneo è chiamato a realizzarne una nuova versione, come gesto di risarcimento simbolico. Nel 2024, l’opera è stata affidata a Michelangelo Pistoletto. In continuità con questo spirito, la Fondazione Ghenie Chapels – promossa da Alessandra Borghese nel 2022 con il sostegno di padre Giuseppe Bucaro – ha riportato al culto tre cappelle grazie a interventi permanenti dell’artista Adrian Ghenie. Due, nella chiesa della Madonna della Mazza, sono dedicate ai nuovi martiri contemporanei e a don Pino Puglisi; la terza, a Santa Ninfa ai Crociferi, reinterpreta Santa Rosalia come simbolo identitario della città. Non semplici installazioni, ma presenze vive, capaci di riattivare la relazione tra arte, spiritualità e comunità.
A Palermo la Fondazione RIV ha debuttato con la collettiva “Spazio Umano”, resa più intensa dalla ricchezza di San Mamiliano
Qualche settimana fa, la neonata Fondazione RIV ha debuttato nel capoluogo siciliano con la collettiva Spazio Umano, ospitata nella chiesa di San Mamiliano, all’interno del complesso monumentale di Santa Cita (o Santa Zita, patrona di Lucca). La presenza di questa santa inusuale nel cuore di Palermo rimanda all’insediamento dei mercanti lucchesi nel Trecento, traccia di una storia di scambi e connessioni che oggi si riattiva nel confronto con l’arte contemporanea. Il progetto, nato da un’idea di Gianluca Collica e Patrizia Monterosso, ha riunito dodici artisti di diverse generazioni e provenienze – Adalberto Abbate, Francesco Balsamo, Tony Cragg, Francesco De Grandi, Aziz Hazara, Francesco Lauretta, Urs Lüthi, Rabih Mroué, Dala Nasser, Mimmo Paladino, Hans Schabus e Alberto Scodro – in un dialogo con lo spazio sacro. RIV nasce come dispositivo curatoriale che riflette sulla condizione umana contemporanea e si inserisce in una rete più ampia di esperienze attive in Sicilia, per espandersi laddove la marginalità culturale è maggiore. A rendere più intensa la relazione tra arte e luogo è la ricchezza stratificata della chiesa: restano in situ le opere rinascimentali di Antonello Gagini, autore della tribuna marmorea e dell’arco del cappellone, accanto alla barocca Cappella del Rosario, decorata con preziosi marmi mischi capaci di mettere in scena, insieme, la gloria terrena e l’inevitabile caducità della vita. In questo contesto, le opere contemporanee non cercano accordi facili, ma aprono spazi di ascolto e attenzione. In un tempo segnato dalla guerra, dalla disumanizzazione e dalla perdita di valore della vita umana, gli artisti reagiscono all’indifferenza con gesti che chiedono di essere visti e accolti. La chiesa non è solo sfondo, ma parte viva di questo incontro.