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Chi vuol vivere come i monaci zen
Ogni progresso porta guai. L'immortalità? Un'illusione catastrofica
L’essere umano, quello strano animale che come si muove inquina. Alla corrente elettrica e agli antibiotici preferiamo i campi dei nostri nonni? Ma non si può spegnere il desiderio del cambiamento
Ma questo benedetto uomo è buono o cattivo? Lotta per il progresso e il benessere o sta portando il mondo verso la sesta estinzione? Vi invito a seguire una terza via. Dice infatti il saggio: è proprio il nostro tentativo di risolvere i problemi a creare i problemi. Sognando creiamo nuovi incubi. Così dice il saggio che ci consiglia di vivere senza desiderare. E difatti, da Zenone in poi, passando per Seneca, e considerando naturalmente il pensiero orientale, i saggi ci avvertono: state fermi, non vi muovete che poi fate casini. Desiderate poco, quasi niente, il desiderio vi frega, rinunciate. Fate come quel monaco nella famosa storiella zen che si trovò il ladro in casa e invece che farsi prendere per pazzo, gli consegnò tutto quello che possedeva. Poi andò in giardino e si sedette a guardare la luna e disse: povero uomo, avrei voluto regalargli anche questa bellissima luna.
Suggestiva e pedagogica storiella. La rinuncia è la sola scelta sensata da fare: rinunciando all’ovvio possiamo vedere la luna. C’è tutta una declinazione mistica e salvifica che accompagna l’idea di rinuncia ma non mancano anche severe critiche (di stampo marxista, ma non solo). Alcuni avvertono: sono i ricchi e i potenti, nonché molti intellettuali anche di grido, a invitarci a godere l’attimo perché del doman non v’è certezza, hai visto mai che i poveri cominciano a snobbare Bacco e Arianna, si organizzano e si mettono in testa di essere lungimiranti? Va a finire che poi ti fanno la rivoluzione, in senso lato, si intende, mica solo prendere la Bastiglia.
Comunque, sia i fautori della rinuncia sia i critici sottolineano che la volontà è il motore primo. La volontà ci ammazza e ci deprime, crea dei rinculi che non sappiamo gestire. O al contrario, volere è potere, se non vogliamo nulla non siamo nulla. Chissà, forse andrebbe inserita una categoria diversa nel gioco contro o a favore della volontà, e cioè il Caos. Elemento bizzarro e poco considerato che tuttavia ci avverte che per quanti sforzi facciamo, volontà o meno, non siamo capaci di prevedere le conseguenze delle nostre azioni. In fondo, i due grandi romanzi degli anni Venti del Novecento, Ulisse (1920) e La coscienza di Zeno (1923), di questo ci parlano: dell’asincronia (molto comica nonché labirintica) tra pensiero e azione.
Solo la nostra buffonaggine e la nostra arroganza ci impediscono di considerare il Caos. Per rendere più concreta questa ipotesi, osservate la seguente dinamica. Nel suo primo ricordo, mio padre, oggi quasi novantenne, si rivede insieme a suo padre. Padre e figlio corrono dietro al prete. Il prete parla con dei soldati americani su una camionetta, sono appena entrati a Piedimonte Matese. Erano stati tempi duri, i tedeschi avevano razziato il razziabile, mio nonno si era salvato da un rastrellamento non fuggendo sul Matese o dalle parti di Cassino ma occultandosi nella mangiatoia, sicuro che i tedeschi non si sarebbero destreggiati in una stalla, tra letame e pagliericci. Poi i guastatori tedeschi avevano fatto saltare con la dinamite la ferrovia Piedimonte Matese-Capua, poi il cotonificio, e subito dopo gli americani avevano cannoneggiato Piedimonte Matese, e insomma, dopo questi giorni difficili tra le macerie fumanti e gli umori vacillanti, mio padre insegue suo padre che a suo volta insegue il prete, l’unico alfabetizzato (aveva insegnato a mio nonno a fare la firma) e che masticava un po’ di inglese. Il prete chiede agli americani se hanno la medicina. Serve alla mamma di mio padre che da molti giorni è colpita da una brutta febbre.
La brutta febbre! Che concetto strano per me. Quando da bambino mi capitava di avere la febbre ero così contento. Non andavo a scuola. Poi quel senso di protezione. Anche quando la febbre era alta e non riuscivo a far niente. Una volta Alfonso Berardinelli mi scrisse un messaggio che conservo ancora: goditi la febbre, a me non viene più, forse perché vivo da solo. Ecco, quella febbre ai tempi di mio padre era un pericolo. Quella stessa febbre che faceva dire ai protagonisti del libro Cuore: il nostro compagno è malato, speriamo che torni. Che affliggeva e deprimeva e spesso uccideva eroi ed eroine romanzesche, quella febbre che colpì Rituccia, la figlia di Gennaro Jovine, protagonista del dramma teatrale Napoli milionaria. Quella famosa chiusa: adda passà ‘a nuttata – dice Gennaro, sperando che la figlia con la medicina sopravviva alla notte.
Ecco, quel tipo di febbre cominciò a essere curata con la penicillina. Ed era proprio quella la medicina che mio nonno, tramite il prete, chiedeva ai soldati americani. Che tuttavia gli dissero: fra qualche ora arriva un contingente che ha la medicina. Il contingente arrivò ma mia nonna se n’era già andata: colpa della febbre.
Come nei secoli se n’erano andati uomini e donne, soprattutto bambine e bambini. Una volta era la polmonite, un’altra la meningite, e poi setticemie, infezioni intestinali gravi. Perché ci sono molti modi di morire ma alcuni sono proprio sporchi e umilianti. Ecco perché i miei parenti, tutti contadini dal lato paterno, poveri, con bassa scolarizzazione, insomma, ancora oggi, quelli che sono sopravvissuti, più che novantenni, lucidi, bene in arnese, si commuovono tanto se passa in televisione Napoli milionaria, appunto “adda passà ‘a nuttata”. Perché poi è vero, in quel finale Eduardo/Jovine è moralista, è l’uomo che torna e mette a posto tutto (in altre opere è stato più cattivo e meno conciliante), libero dai condizionamenti del denaro, capace di fare la morale a sua moglie Amelia che insieme a Settebellezze ha messo su un giro di borsa nera. Però i fatti narrati erano veri, e ancora oggi toccano profondamente tutti i miei parenti, loro sono i sopravvissuti, hanno visto il giorno dopo la nottata.
Ora, voi, uomini lungimiranti, uomini d’azione, opinionisti che parlate dell’uomo come colpevole di ogni male, l’avreste detto che fu un ufficiale medico del Corpo sanitario della Marina militare, un anonimo molisano, Vincenzo Tiberio, a descrivere nel 1895 il potere battericida di alcune muffe? Trent’anni dopo, nel 1928 Alexander Fleming riuscì in modo molto fortuito e rocambolesco a dar forma e sostanza alla penicillina (la sperimentazione sugli antibiotici cominciò nel 1941). L’avreste detto che le febbri avrebbero smesso di essere un problema? Queste scoperte, insieme ai vaccini, ai bagni piastrellati, alle fognature, alla migliore alimentazione (sì, perché il pane di ieri era scarso e di bassa qualità), hanno ridotto la mortalità infantile. Per inciso, rendendo impossibili alcuni incipit letterari memorabili come quello del Gorgo di Fenoglio: “Nostro padre si decise per il gorgo e in tutta la nostra grossa famiglia soltanto io lo capii che avevo nove anni ed ero l’ultimo. In quel tempo, stavamo ancora tutti insieme, salvo Eugenio che era via a fare la guerra d’Abissinia. Quando nostra sorella penultima si ammala. Mandammo per il medico di Niella e alla seconda visita disse che non ce ne capiva niente: chiamammo il medico di Murazzano ed anche lui non le conosceva il male; venne quello di Feisoglio e tutt’e tre dissero che la malattia era al di sopra della loro scienza”. Le malattie non sono più al di sopra della scienza, i bambini non muoiono più e si alza la vita media. Ora, cosa dovremmo rispondere al saggio di cui sopra? Abbiamo curato un mondo ammalato, un mondo dove i bambini morivano di febbre. Se non avessimo sognato, stavamo ancora lì nelle Langhe, con bambine malate e uomini adulti stanchi, pronti al suicidio. Abbiamo fatto bene a desiderare, no? Volere è potere.
Il saggio potrebbe risponderti: ma l’avresti mai detto che poi quei bambini sarebbero cresciuti? L’avresti mai detto che si sarebbero trasformati in 60enni problematici che corrono continuamente sul filo del cringe? Che di morte mancata in morte mancata avrebbero occupato il mondo, aumentando la densità abitativa dei grossi centri urbani? Una crescita esponenziale che nel giro di una generazione ha raddoppiato la popolazione portandola a 8,3 miliardi (quando sono nato, nel 1966, c’erano solo 3,4 miliardi di persone, ma quando mio padre è nato nel 1936 a stento c’erano 2 miliardi, quando mio nonno è nato nel 1899 solo 1,6).
Una crescita impressionante, tanto che lo stesso De Filippo, non so quanto colpito dalla variabile demografica, comunque quel drammaturgo che chiude Napoli milionaria sperando che la notte passi e Rituccia si riprenda dalla febbre (e Napoli risorga), proprio lui affisse sulla porta della sua casa a Ischia una targhetta con una frase cult: “Che brutta cosa ‘a gente”. Rituccia era cresciuta, tutti lo eravamo, eravamo diventati brutta gente, invadenti, colonizzatori di spazi, ricercatori di nuove terre.
Il saggio potrebbe rispondere: ve l’avevo detto io che il vostro desiderio di risolvere il problema ha creato altri problemi. Al conto del mondo, per complicare le cose, si sono aggiunte molte persone. Persone che – insiste il saggio – per crescere senza dilemmi, per poter diventare vecchi con una bella pancetta e con pochi problemi, se non qualche perdita urinaria, necessitano di energia, sennò come si fa a crescere e moltiplicarsi? L’energia è un costo, fa girare il mondo ma può rovinarlo.
Considerate il seguente scenario. Sempre a Piedimonte Matese c’era un parente un po’ scemo, molto povero, di mestiere faceva lo zappatore, ma senza il temporaneo appeal che anni dopo Mario Merola avrebbe dato a questo lavoro. Uno zappatore che pativa la fame. Quindi il sindaco lo chiama e gli dice: senti, ci sta una fatica, ma non qui, in Belgio. Lui chiede di che si tratta e il sindaco risponde dritto dritto: roba da miniera. E non insiste più di tanto. Perché lo zappatore è un po’ scemo, lo chiamano l’abbonato, cioè uno tonto. E lo zappatore va, nemmeno sapeva dove e cosa fosse il Belgio e quando, solo dopo aver passato umilianti controlli medici, si ritrova nella vena carbonifera a centinaia di metri sotto terra, dice questa frase che passerà alla storia: “Si potrebbe aprire una finestra?”.
Che volete farci, in fondo era un po’ abbonato, poteva mai intuire in cosa consistesse il lavoro in miniera? Da allora lo chiameranno ’a Fenestra, e si porterà dietro questo soprannome, anche quando tornerà a Piedimonte Matese. Giornate passate con l’enfisema davanti al bar, perché i polmoni erano rovinati, con una bella collana d’oro al collo e molte birre Peroni sul tavolino. Anche allora gli amici ogni volta lo saluteranno così: “Oh, Fene’, che si dice?”.
Quel parente zappatore che si ritrovò in miniera e chiese: “Si potrebbe aprire una finestra?”. Il carbone che estraeva contribuiva a illuminare le nostre case
Ma voi l’avreste detto che il carbone estratto dal Fenestra sarebbe servito anche a generare elettricità? L’avreste immaginato che mio nonno materno, capo mastro di professione, un bravissimo e molto simpatico muratore, nonché operaio, avrebbe contribuito ad alzare dei tralicci elettrici?
Mio nonno parlava sempre dei tralicci elettrici, anche in punto di morte. Diceva (così me li raccontava) che erano giganti buoni. Dalla cima di una montagna prendevano un filo e lo porgevano a un altro gigante che stava nel bel mezzo della valle e questo a sua volta porgeva i fili a un altro e alla fine quei fili servivano a portare la corrente elettrica e dunque illuminare certe lande desolate. Se vi foste trovati in una di quelle lande avreste festeggiato o no mio nonno e i suoi tralicci?
Mio nonno diceva di sì, che i contadini festeggiavano eccome. I contadini, con delle belle tavolate, ringraziavano gli operai. Anche perché i ragazzi e le ragazze studiavano grazie a quella luce. Ora sembra incredibile, ma in alcune zone della Calabria a metà degli anni Settanta non c’era ancora l’energia elettrica, nemmeno in Umbria, nemmeno in Campania e in Sicilia.
A Caserta, a metà degli anni Settanta, mia mamma che faceva la maestra elementare accoglieva alcuni contadini analfabeti. Venivano da paesi vicino Caserta, in alcuni non c’era ancora energia elettrica e stavano a casa nostra fino a tardi, tanto c’era la luce. Così imparavano l’abc. Due me li ricordo ancora, Mario e Ciccio, 16 anni, analfabeti. Che ridere quando arrivarono alla stazione e chiesero dove stava di casa la maestra Biscardi. E che ridere quando uno di buon cuore gli dette indicazioni, ma loro non sapevano leggere. Come si fa a trovare un civico se non si è capaci di leggere? Un altro di buon cuore li accompagnò mano nella mano come Totò e Peppino fino a sotto casa nostra. Ma che schifo quando arrivarono. Si portavano dietro l’odore di stallatico. Così forte che presi in profumo Bac per coprire la puzza. Mio padre si innervosì, quell’odore il letame era vitale per lui, non andava respinto ma anzi, respirato. E non perché l’avesse detto De André.
Che bello poi quando Mario e Ciccio, dopo mesi passati su quaderni e figure, ben illuminati da poco efficienti lampadine a incandescenza, impararono a leggere e scrivere. Che bello quando Mario andò a farsi per la prima volta l’esame del sangue, perché sapeva leggere. E lesse che il ferro era molto sotto il valore medio. E mia madre l’accompagnò dal dottore il quale fumando gli disse: voi rischiate una trasfusione. State inguaiato. Mario rideva e il dottore disse: ma che tenete da ridere? Avete capito o no che rischiate una trasfusione? E mia mamma: sì, ha capito, quello ride perché ha imparato a leggere e a scrivere.
L’avreste detto voi che quella sequenza di avvenimenti che partiva dal Fenestra, passava per il carbone e finiva per ricadere su Mario il quale alfabetizzandosi investiva sul suo futuro, questa sequenza avrebbe fatto fare un passo in avanti all’Italia intera? Avremmo o non avremmo dovuto sognare di affrancarci dalla zappa, disertare l’aratro, andare in fabbrica, realizzare i pilastri che reggono il mondo contemporaneo, e cioè ammoniaca (senza i concimi non nutri una popolazione in crescita), acciaio (senza questa lega non costruisci i tralicci e nemmeno i binari che portano ‘a Fenestra da Piedimonte Matese in Belgio), cemento (senza il cemento non si costruiscono le case dove ancora oggi abitiamo) e plastica (che accolgono noi infanti tremolanti nelle sale parto e ci proteggono dalla conseguenze di alcune micidiali febbri in una terapia intensiva).
Quattro pilastri che necessitano per essere realizzati del lavoro del Fenestra, insomma dei fossili.
Ma il saggio ti dirà: bene, ora avete un mondo con otto miliardi di bocche, ognuno con un proprio personale obiettivo, trovare sé stessi, l’io autentico, quindi desiderosi di altra energia fossile: vi dice qualcosa il cambiamento climatico? Anche in questo caso, i tentativi di alfabetizzare Mario e Ciccio hanno avuto delle conseguenze, non era meglio trattenere il vostro desiderio?
Perché vanno bene, le energie rinnovabili. Sì, sono aumentate del 12 per cento nel 2024, quindi applauso. Ma nello stesso tempo dobbiamo notare che nell’anno passato abbiamo raggiunto il picco di estrazione di fossili. Quindi, com’è possibile? Chi mente? Nessuno, semplicemente non stiamo sostituendo una fonte pericolosa con una meno pericolosa, come la transizione vorrebbe, ma stiamo aggiungendo alla base fossile una componente rinnovabile. Per forza, 8 miliardi di persone che devono compiere la propria ricerca interiore, energetica. Come fai a raggiungere la ricerca interiore senza energia a basso costo, con basso know how? Non era meglio – dice il saggio – non desiderare?
Potremmo rispondere al saggio: perlomeno con l’alfabetizzazione abbiamo sconfitto le tenebre. Il che è vero. A trovarla una come mia zia Rubina, maga, fattucchiera dai grandi poteri. Poteri che le venivano direttamente da una strega. Quella che mio nonno paterno prese nella stalla mentre faceva le trecce ai cavalli. La tenne per i capelli (il corpo era liscio e sgusciante) finché la strega promise che se l’avesse lasciata andare avrebbe passato i poteri a mia zia e protetto la famiglia per sette generazioni.
Mia zia i poteri li assunse, su questo nessuno dubita. Aveva visto anche la messa dei morti. Una cosa rara. Tornando dai campi, al buio, stanca, aveva sentito delle voci. Seguendole, si era ritrovata in una chiesa sconsacrata e lì c’erano tutte le anime dei parenti defunti che celebravano la messa. Mia zia si unì a loro e parlò con loro. Un racconto che mi terrorizzava da bambino, ma mia zia diceva: ma c’erano mammà e papà, che mi devo mettere paura di papà e mammà? Cose che capitano ai contadini, diceva l’antropologo Ernesto de Martino (analizzando le miserrime condizioni di vita dei contadini del sud), e anche mia madre era dello stesso avviso. Capita ai poveri e ai poco istruiti. Stanchi, sopraffatti dalla fatica, gli capita di vedere i fantasmi: allucinazioni causate dalla fame. Rituali e formule medicamentose avevano un senso: servivano a combattere il peso della vita, la fragilità dell’esistenza quotidiana, l’esposizione al caos e alla leopardiana futilità del tutto.
In un mondo di affamati, la magia aveva un suo senso, per questo abbiamo combattuto alfabetizzando, elettrificando, concimando, costruendo dighe, ponti, binari. Ma potevamo mai immaginare che ci saremmo ritrovati fermi in mezzo a una strada perché quelli di Ultima Generazione o chi per loro ci stanno rimproverando di aver consegnato loro un mondo che brucia? Un mondo dove ogni anno è più caldo del precedente, da ultima generazione.
Anche in questo caso il saggio direbbe: ve l’avevo detto io. Aggiungerebbe anche: credete davvero che il mondo sia diventato più razionale? Più comprensibile? Che le streghe siano passate di moda? Se è così vi sbagliate: era meglio limitare il desiderio. Dice il saggio: il vostro desiderio di migliorare lo status quo a cosa ha portato? A un mondo più complesso, dunque meno leggibile. Un mondo che a partire dagli anni Ottanta ha visto crollare le solide strutture millenarie. Che sia il mondo contadino, la fabbrica, il partito, la chiesa. Quindi poco leggibile. Ma che cosa vuol dire “leggibile”? Il mismatch si è ampliato, la società, con la spinta tecnologica, cambia più rapidamente di quanto noi, con la nostra struttura tecnologica, cioè il cervello, siamo disposti ad ammettere.
Quindi il saggio ci spinge a considerare questa ipotesi: voi credete che quelle persone che vedete accapigliarsi nei talk per dimostrare di aver ragione, quelli che scrivono elzeviri sui giornali o peggio di tutti certi psicoanalisti o psicologi, davvero hanno capito qualcosa? Perché l’impressione, sentendoli parlare, è del contrario: non hanno capito niente. Anzi, la loro favella è solo la dimostrazione che noi umani siamo speciali nell’autoingannarci, voglio dire, il viatico per la felicità non è seguire le indicazioni di un intellettuale ma proprio nell’autoinganno. Lo facciamo sempre e sempre ce la caviamo. Mica dobbiamo cercare la verità. Il nostro interesse unico è quello di essere accolti, amati, accuditi dalla nostra famiglia di riferimento.
Quindi, una famiglia che ci adotti la si trova. Sui social è pieno, se vuoi un terrapiattista lo trovi. Trovi anche chi dice: se parli d’amore all’acqua, l’acqua assume la forma dell’amore, perché lo scopo dell’universo è dare forma alle tue parole. Insomma, se cerchi megalomani siffatti, ebbene li trovi.
L’avrebbe detto mia mamma, quando ha alfabetizzato i contadini, che un giorno nessuno avrebbe più letto? Al contrario, i nipoti di quei contadini si sarebbero dannati per scrivere un romanzo senza leggere quelli del prossimo. Non l’avremmo detto, no. E’ molto probabile che la tecnologia ci libererà da alcune incombenze, dando spazio alla nostra mente, ma la mente liberata proverà una sorta di vertigine della libertà di kierkegaardiana memoria.
Che ce ne faremo dell’immensità, del tempo libero? Leggeremo, ci applicheremo a capire il mondo o cercheremo di imporre al prossimo il nostro io, costringendoci a forza di insistenze di dichiarare: che brutta cosa, ’a gente?
Sono gli interrogativi che certi saggi ci lasciano in eredità. Uniti ad altri rendono il mondo che abitiamo abbastanza problematico. Come vivremo in un mondo nuovo, perché tecnologico, forse attraversato da maggior benessere, ma invecchiato? Il tasso di natalità scende dappertutto, l’età media degli italiani è già 46,8, un attimo e arriveremo a 50, gli altri paesi non sono da meno (Spagna 45,6 anni, Germania 45,5, Polonia 43, Francia 42,5). L’Inps è in crisi, chissà cosa succederà domani.
E poi, pensioni a parte, quando si invecchia, fisiologicamente, si diventa più attaccati alle radici, ai confini, alla Patria, meno curiosi, più bisognosi di sicurezza. Ora, di sicuro troveremo modi diversi per produrre energia e ci salveremo dalla crisi climatica (nonostante qualche fisiologico grado in più) e dunque vivremo più a lungo, fino a 90 anni ci possiamo arrivare, certo con vari acciacchi e barcollamenti, qualche demenza, magari un esercito di badanti a nostro sostegno e una vastità di medicinali. In queste condizioni riusciremo a governare il mondo? Oppure, vista la complicazione e l’impegno che ci vuole per approfondire la complessità, delegheremo sempre di più a un capo condomino, uno che ci garantisce a forza di dichiarazioni altisonanti e politicamente scorrette, la pulizia dell’atrio e il rispetto dei confini condominiali?
Tutte promesse che verranno smentite un anno dopo, perché, hai voglia a fare dichiarazioni da fascio o da comunista, scorrette o corrette, poi ti tocca governare e anche tu, capo condomino, non ci capisci niente del mondo che giuravi di cambiare. Cosa faremo? Non staremo fermi – dicono gli ottimisti – troveremo soluzioni ai nuovi problemi, cambieremo gli scenari, renderemo concreti nuovi e vecchi sogni. E ci troveremo di fronte – avvertono i pessimisti – ad altri scenari da incubo che abbiamo ignorato e che non era possibile evitare.
Per questo certi saggi ci consigliano di non desiderare. Magari li ascolteremo, chissà (anche se ne dubito), magari il mondo troverà il modo di autoregolarsi (l’AI fornirà il governo di base).
Ma per non desiderare dobbiamo percepire il meno possibile: perché il problema è quello: percepiamo e desideriamo quello che percepiamo. E attribuiamo al desiderio una via privilegiata, siamo convinti che volere è potere. Un altro autoinganno. Il nostro desiderio passa per la nostra natura che perfetta non è. Gli umani vivono di sintomi perpetui, ci ammaliamo, buttiamo fuori il peggio di noi. Ma vivono anche di compromessi, cerchiamo un’armonia momentanea tra costi e benefici. Nemmeno siamo così liberi, siamo soggetti a pregiudizi.
Se cambiassimo la natura umana? dicono alcuni. Ci crediamo speciali ma non lo siamo. Siamo, rispetto ad altri organismi, meno adatti a sopportare il cambiamento. Dobbiamo porre rimedio. Se scoprissimo che ci sono alcuni geni oncosoppressori (ce ne sono, nei topi per esempio) e con l’ingegneria genetica li trasferissimo nel nostro Dna? Si potrà fare. Davanti alla cura dei tumori faremo gli schizzinosi col Dna esogeno? Se riusciremo a farci crescere parti mancanti o organi danneggiati? Vi sembra lontanissimo? Una pratica antiumana? Ma che importa, l’umano non è fissato per sempre, se ci sarà da risolvere un problema prima cercheremo il modo, poi useremo gli strumenti che abbiamo trovato. Diventeremo come certe tartarughe che muoiono solo per catastrofi naturali?
In quel caso, l’immortalità che tanto auspichiamo sarà il maggior viatico verso l’autodistruzione, basta leggere l’Aleph di Borges per capire cosa succede agli immortali.
Allora? Questi consigli dei saggi? Percepire di meno per desiderare di meno? Come i nostri cugini primati. Potremmo, vista la decrescita della popolazione, unirci a loro? Vivere in luoghi protetti, cibarci della vegetazione necessaria. Concentrarci sull’affettività, sulla cura dei cuccioli e quasi non accorgerci che a un certo punto la vita finisce. Senza la presenza della morte il desiderio di vivere è ridotto al minimo. Come sono ridotti al minimo i tentativi di risolvere i problemi che poi creano altri problemi. Cosa resta? La contemplazione della luna sicuramente. Boh, voi che dite?


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