
La teoria delle monadi di Gottfried Wilhelm Leibniz, un labirintico assemblaggio di microcosmi che contengono macrocosmi (foto LaPresse)
Leibniz s'è fermato ad Asti
Con “Digressione”, Gian Marco Griffi rivitalizza il romanzo-fiume, labirinto barocco di specchi e citazioni. Ma qualcosa stride
Mentre in autunno camminava su un ampio letto di foglie, Leibniz notò che ogni foglia, pur sembrando identica a ogni altra, era immancabilmente sé stessa: ognuna diversa da ognuna, foss’anche per un’impercettibile, infinitesimale tratto distintivo. Quest’episodio compendia la concezione dell’universo di una delle più straordinarie intelligenze che abbia calcato la terra: ogni singola cosa a questo mondo è formata da “monadi” – immateriali centri di energia e percezione, invisibili e indivisibili – la cui differente composizione determina le differenze tra cosa e cosa, finanche le più piccole, come quelle impercettibili tra foglia e foglia. Ogni monade, dal canto suo, riflette l’intero universo, come avesse un’infinita serie di specchi che rimandasse un’infinita serie di immagini, formando un labirintico assemblaggio di microcosmi che contengono macrocosmi. Difficile non invaghirsi dell’universo di Leibniz, in cui la realtà è una collezione di entità singolarissime e infinitamente piccole, che pure sono capaci di includere l’infinitamente grande.
Il fascino per l’ordito ereditato dal filosofo delle monadi, la teatralità dei personaggi, l’abbondanza di pieghe, policromie ed effetti illusionistici
Non sorprende allora che illustri letterati abbiano tratto ispirazione dal genio leibniziano: Paul Valéry, Carlo Emilio Gadda, Italo Calvino, e soprattutto Jorge Luis Borges, che alla letteratura affidava il compito di esplorare tutti i mondi esistenti, e i mondi dentro questi mondi, per scoprire come nessuno sia identico all’altro, eppure ognuno li contenga tutti. Da pitagorico ingegnere della parola, Borges seppe portare alla perfezione la tecnica del libro-nel-libro, vale a dire il racconto di una storia che inizia per far subito perdere le tracce di sé dentro un’altra storia, che a sua volta ne racconta un’altra ancora – e le storie finiscono per intrecciarsi, riflettersi e moltiplicarsi, dando vita a un colossale intrico. Di qui ha germinato parte ampia della narrativa postmoderna, che ha fatto della cosiddetta “metanarrativa” un suo tratto specifico, in romanzi che spesso dilagano nel numero di pagine. Ed è questo il caso di Digressione, di Gian Marco Griffi, pubblicato da Einaudi Stile Libero. Proprio come Leibniz, da cui eredita il fascino per l’ordito, Griffi incarna la tendenza all’eccesso del barocco. Digressione si caratterizza innanzitutto per l’emotiva teatralità dei gesti dei suoi innumerevoli personaggi, studiati per suscitare pathos, in un contrasto vivido tra luci e ombre, che accentua la dinamica e il dramma, in pagine segnate da una ricchezza ornamentale capace di sopraffare il lettore per abbondanza di pieghe, policromie ed effetti illusionistici.
Il nucleo affettivo sta nel tentativo di cura dal senso di colpa. “Digressione” non offre una teoria del mondo, ma il dramma farsesco dell’umanità
Per tale ragione – lo si comprenderà – proporre una sintesi del libro non è possibile. Digressione è un’opera monumentale di più di mille pagine, prova narrativa carica di ambizione e sperimentalità. Si snoda attorno alla figura di Arturo Saragat, che all’inizio del libro incontriamo in un parcheggio del Carrefour: un adolescente che nel 2013 si ritrova coinvolto in atti di bullismo ai danni del timido e impacciato Tommaso Sconocchini, sottoposto a una sevizia chiamata “prova riflessi”. Arturo rimarrà segnato dalla sensazione di non aver fatto nulla per soccorrere Tommaso, il quale dall’evento resta tanto scosso da togliersi la vita poco dopo. Arturo s’inerpica così in un percorso di espiazione, convinto che potrà redimersi solo raggiungendo un enigmatico luogo chiamato Roghudi Vecchio (l’affascinante borgo fantasma calabrese) – e che pure raggiungerà assai tardi. Quell’episodio di vita minima, dall’enorme peso narrativo, apre il vero nucleo affettivo del libro: la colpa non come principio astratto, ma come ferita legata alla tangibilità di una tragedia cui si sarebbe potuto porre rimedio e che, realizzatasi, non offre vie di ritorno. La cura consiste in un lungo percorso di resipiscenza e ricerca di sé.
Ma, per l’appunto, di Digressione questa sintesi dice assai poco. In effetti, un elemento chiave dentro l’episodio di avvio è un libro che Tommaso aveva donato ad Arturo: Historia poética y pintoresca de los ferrocarriles en México, unica copia superstite (la numero 33) di una tiratura andata distrutta. Cosparso di annotazioni e segni a penna, questo libro-nel-libro agisce come l’innesto di innumerevoli deviazioni, per condurci in dimensioni letterarie alternative: non mero accessorio, dunque, ma funzione e veicolo, al punto che il lettore perde via via coscienza della linea che separa i diversi livelli di realtà. Historia poética è sede di un sapere quasi sacrale, perché prodotto da intere generazioni, passato com’è di mano in mano, segnato e glossato in ogni passaggio, dal 1933 fino al 2054. Per quanto possa sembrare una storia sulle ferrovie messicane, il prodigio del libro sta nella capacità di catalizzare digressioni: da ogni sua nota o suo segno si dipartono nuove dimensioni temporali e narrative, in cui voci disparate ci trascinano in mondi diversissimi: Asti, il Messico, isole immaginarie e perfino un’ucronica Pantelleria dove Mussolini, cui fu risparmiata la vita, finisce ad allevare asini.
Del suo leibniziano barocchismo Griffi fa professione. Esso trova sintesi in una frase che nel libro torna a più riprese, “il mondo in un granello di mondo”, la cui esegesi viene offerta presto e non senza le pretese tipiche del pensiero speculativo più hard. Nel terzo capitolo si spiega infatti che il destino non esiste, perché altrimenti dovrebbe esistere una sola e unica linearità del tempo, che obbedirebbe a una fissità determinata già dall’alba dei tempi. Invece no: “Noi crediamo che esistano infiniti tempi, e infinite biforcazioni. Infiniti noi. Infiniti incroci tra un tempo e l’altro. Crediamo che i tempi non siano paralleli. Sono come i bastoncini colorati dello sciangai”. Un multiverso senza dimensioni privilegiate rispetto alle altre, che al contempo si riflette in ogni singolo ente di questo avviluppato complesso, perché ciascuno di noi è “alla costante ricerca di un collegamento tra il nostro mondo interiore e l’universo esterno”. E in questo multiverso, come le foglie di Leibniz, esistono entità similissime, che si distinguono per differenze infinitesimali: “Ci viene voglia di contare quanti capelli abbiamo in testa ben sapendo che contarli è impossibile, che è un’impresa destinata al fallimento, che nel momento in cui cominceremo a contare i capelli ci toccherà una tortura inesauribile” proprio come “quando pretendiamo di enumerare catalogare tutti i Tommasi Sconocchini possibili, da quello che il diciannove novembre duemilatredici ha centomilaundici capelli in testa e centosettantuno ciglia nella rima superiore a quello che il diciannove novembre duemilatredici ha centomilaundici capelli in testa e settantasette ciglia nella rima inferiore, e così, enumerando e catalogando tutti i Tommasi Sconocchini possibili, finiamo per enumerare e catalogare tutti i mondi generati e affrontati da tutti i Tommasi Sconocchini possibili, pur sapendo che non basterebbe una vita, non basterebbero le vite di tutte le persone nate e morte sulla Terra da quando sulla Terra esistono persone in grado di contare, enumerare e catalogare, pur sapendo che neppure Dio potrebbe ammucchiare tutti i Tommasi Sconocchini possibili uno sopra l’altro, né tantomeno enumerarli e catalogarli”.
Non si prenda però Digressione per un libro di Max Tegmark, il fisico svedese che della struttura multidimensionale dell’universo ha tentato di dare una dimostrazione col linguaggio della matematica. A Griffi non sta a cuore tanto una teoria del mondo, quanto quel dramma farsesco dell’umanità che esalta dalle prime alle ultime pagine. Il centro del libro rimane il percorso di Arturo e il senso di colpa che lo accompagna e lo spinge nelle spire di un cinico disincanto, screziato dell’autentico desiderio di cambiare. L’omaggio intertestuale rappresentato dalla figura dell’amata Angelica – di ariostesca memoria – segna l’istintivo richiamo della fuga dal mondo, che fa trasognare e perdere la ragione: Angelica è sia carne sia simbolo, e Arturo l’ama di un amore intenso e indomabile, fino a perdere il controllo – a significare che sempre qualcosa ci sfugge.
Digressione ha il merito di sottrarsi al vizio, tutto contemporaneo, della letteratura come nobile intrattenimento: è un libro che osa, facendo della sperimentalità la sua cifra. Sperimentalità non solo linguistica e narrativa, bensì anche psicologica e introspettiva – nervosa, alle volte, quando mette alla prova il lettore, specie quello più smemorato, come lo scrivente, che si trova a dover prendere appunti su fatti e personaggi al fondo del libro. In un mercato editoriale che genera inflazione di storie vere, intimiste, ombelicali, politicamente corrette, Griffi rilancia il modello postmoderno del romanzo-fiume, che non si preoccupa del confine tra verità e finzione e amalgama i temi fondamentali dell’esistenza.
Godzilla, la Juve, i Simpson con Bosch, Kafka, Zanzotto. Un alto e un basso che sarebbero da distinguere con perizia quando si produce cultura
Il problema, forse, è che nel suo enciclopedico almanaccare, Griffi non può esimersi dal mettere assieme tutti gli aspetti del nostro orizzonte culturale, componendo il basso con l’alto, ambedue evocati da migliaia di riferimenti diretti e indiretti. Troviamo così DJ Super X, Godzilla, Han Solo, la Juventus, King Kong, The Walking Dead e Kylie Minogue assieme a Bosch, Cicerone, James, Kafka, Minkowski, Rossini, Ungaretti e Zanzotto. Lo stridore è percettibile soprattutto quando il cortocircuito è provocato dall’autore stesso per via di accostamento: “Gli sforbicii di Serapio, sinuosi e ritmati, delicati quanto lo zampettio di una formica sulla pelle, lo avevano ipnotizzato, sprofondandolo in uno stato di incoscienza, e ora sperimentava un potente trip mentale, quasi quello zac-zac-zac monocorde avesse aperto una delle tante porte della percezione decantate da Jim Morrison, da Aldous Huxley, da William Blake”. Per chi in fatto di produzione artistica è conservatore, come chi scrive, Jim Morrison e William Blake non hanno decantato le stesse percezioni e, se pure fosse, l’hanno fatto con strumenti tra loro diversissimi – tutti eminentemente degni, beninteso, eppure da distinguersi con perizia quando si produce cultura.
Questa sensazione è rafforzata da un citazionismo diffuso, che secondo molti occhieggia a David Foster Wallace, e affresca la nostra epoca come immancabilmente brandizzata: Esselunga, Carrefour, Nutella, e poi Coca-Cola, KitKat, Galak e Pringles. Persino l’aletta anteriore del libro, non firmata dall’autore, intinge Digressione in un popolarismo universalista e conciliativo: “Come nella famosa intro dei Simpson in cui l’intero universo e l’intera storia dell’universo precipitano in un’unica molecola della pelle della zucca gialla di Homer […]” – e, come nello stile del libro, subito segue un accenno a Borges: i Simpson e Borges, posti allo stesso livello, come se identicamente esprimessero lo stesso universo leibniziano. Il medesimo amalgama di contrasti caratterizza la cifra stilistica del libro. Studiati lambicchi e termini desueti fanno meritevolmente faticare il lettore, che non viene “rassicurato” col ricorso a una lingua piatta da post su X – ad esempio: “I raggi di un sole corrusco e superbo come uno scudo peltato si riflettevano sulle carrozzerie lustre delle automobili parcheggiate, abbarbagliando lo sguardo”. Al contempo, però, il guizzo sperimentalista si stempera in un ricalco troppo immediato delle formule consuete del nostro linguaggio ordinario, cedendo a quella che Griffi stesso definisce “oscenità della vita contemporanea” – ad esempio: “Ho pensato che avrei voluto fare qualcosa per diventare migliore, ma intanto ho acceso un’altra sigaretta, per coprire il persistente odore di merda”.
Il mondo in cui siamo viene deformato, ma comunque riflesso. Eppure la letteratura potrebbe opporsi sediziosamente alla realtà per come è
E allora non è con il Griffi scrittore che dovremmo prendercela, quanto con la sua ostinazione a voler riflettere il mondo in cui siamo, restituircelo solo in parte deformato da ucronie e rivoli linguistici, per ripiegare poi su un verismo quasi-sociologico. Non ci offre nessuna illusione che il mondo sia diverso da quello che abitiamo; non edifica nessuna delle basiliche nel deserto che la letteratura sa costruire quando mente e sediziosamente si oppone alla realtà per come essa è. In fin dei conti, Digressione ci restituisce al nostro conosciutissimo mondo, all’oscenità della nostra vita contemporanea, lasciata in piena vista e persino intensificata dalle miriadi di invenzioni e finzioni. In fondo, come sostiene l’autore in un’intervista, il libro celebra “un’umanità che prova a fronteggiare il disordine del mondo”, nel (molto) male e nel (poco) bene.
Allora potremmo azzardare un’ultima ipotesi, vale a dire che, di Leibniz, Griffi abbia ereditato l’altra stupefacente tendenza a credere che il nostro sia il “migliore dei mondi possibili”: non certo perché bello o buono – figuriamoci – ma perché, in questo comporsi di mondi nei mondi, non può che essersi realizzata la composizione più perfetta. In questa immagine pacificata, la gentilezza diventa un atto rivoluzionario e il prendersi cura dell’altro costituisce una forma di ribellione – come l’autore stesso rimarca. Insomma, se il libro ci restituisce un messaggio, è che, dopo il nostro diffuso vagabondare tra mondi, ci ritroveremo comunque sempre in questo. Per alcuni lettori ciò risulterà consolatorio, per altri disperante.


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