
L'editoriale dell'elefantino
Che minaccia, il chiacchiericcio della società culturale
Procede per impollinazione, ci rende tifosi di ogni tipo di narrazione iperbolica e ci esorta a fischiare nei festival del Libro. Di cultura dovrebbe essere vietato parlare con quel sussiego programmatico e istituzionale abusato
Come sarebbe l’Italia, il nostro amato paese, se smettesse di parlare della cultura, di Capalbio e di Garlasco? Migliore, incredibilmente migliore. Il parlottio culturale e la cronaca nera anche cold, nel senso banale di cold case, sono tra gli acini più velenosi della nostra vigna chiacchierina. Il Dna nella saliva di una ragazza morta ammazzata quasi vent’anni fa si appaia alle disquisizioni sull’egemonia, sono fantasmi verbalizzati di una conversazione appesa a giornali, tv, social, verbali processuali desueti e resuscitati, esperienze estetiche e narrative dipendenti dalla loro presentabilità sociale, una conversazione che avvilisce di noia, che non mette capo a nulla, che si ripete stancamente con varianti, formule, stereotipi, che non sono né arcaici né nuovi, sono eterne rimasticature del già noto.
Di cultura dovrebbe essere vietato parlare con quel sussiego programmatico e istituzionale abusato, idoleggiando qualcosa che notoriamente e misteriosamente c’è o non c’è, che si produce o si annulla per vie strambe, per lo più ignote, che non hanno a che fare con gli strumenti, le politiche pubbliche, l’evocazione magica del “fatto culturale”. Una volta Saverio Vertone mi fece osservare che il cuore dell’andreottismo ideologico, dunque il cuore della vecchia Italia, era una rivista chiamata “Concretezza”, e aggiunse che Concretezza è la parola più astratta che ci sia e più lontana da ogni concreto effettuale. Aveva ragione e il suo schema si può applicare alla parola Cultura, che è ormai il simbolo più anticulturale che sia possibile immaginare.
Alta o bassa? Di destra o di sinistra? Sociale o individualistica? Chi può pretendere all’egemonia culturale? Una visione calma, persuasiva o, Dio mi perdoni, blandamente liberale della cultura dovrebbe partire dalla grammatica e dalla sintassi, dal lessico, dall’invenzione ispirata, non dall’orpello, dall’abbellimento, dallo star system delle mondanità librarie o cinematografiche o musicali o teatrali, e invece siamo divoratori di idee, che diventano classifiche e si trasformano in altre idee che convergono su altre classifiche, il Dna della cultura parlata è lo stesso del processo di Garlasco, una indagine continua, senza requie, inservibile per anche solo un brandello di verità. Il profilo della questione è l’accanimento culturale, una specie di terapia terminale di gruppo che ci costringe a masticare la cultura senza mai nutrircene, a farne un trofeo, un emblema, una infinita testimonianza di vacuità. Franzen ebbe questa notazione letteraria che non mi lascia mai, quella dell’impollinazione culturale.
Siamo uno sciame riproduttivo, la cultura è un miele che estraiamo da cento fiori, mai ci spinge all’abbandono e sempre alla rivolta, ci esorta a fischiare nei festival del libro, anzi del Libro, al nome dissacrato di Michela Murgia, ci rende tifosi di ogni tipo di narrazione iperbolica, ci associa in una famiglia disfunzionale i cui figli d’anima alla fine decidono di saltare gli orali agli esami fra i complimenti comprensivi delle insegnanti e dei genitori in preda a quel mostro che è la “consapevolezza sociale”. Marc Fumaroli, che era un genio e un erudito di quella strana specie animale che è diventata la cultura “alta”, se la prese con lo “stato culturale”, e lo fece bene, con sapienza, ma è la società culturale quella che minaccia la nostra pace e solitudine con il suo chiacchiericcio impollinatore. Certe volte mi ritrovo proprio come un fascista al tempo in cui era scritto: Qui non si parla di politica. Solo che vorrei scrivere: Qui non si parla di cultura.