
Lo spettacolo di Iodice porta sul palco tanti Pinocchi incarnati da ragazzi portatori di disabilità (foto Renato Esposito)
Uno, nessuno e centomila
Pinocchio dei miracoli scopre il teatro della diversità
Davide Iodice porta in scena ragazzi “extra-ordinari” per rispondere alla domanda: “Che cos’è una persona?”. Il capolavoro di Collodi antidoto a ogni malinteso sulla “normalità”
Quando fu lui Pinocchio prima che se lo inventasse, il seminarista adolescente Carlo Lorenzini scoprì durante le vacanze il piacere delle partite a palla e a tamburello con gli amici, sicché un bel giorno si sfilò la tonaca, la lanciò su un albero e se ne tornò a casa in calzoncini. Non diede ascolto ai genitori né, se già gliene frullasse in mente uno, a qualche Grillo parlante, e al seminario di Colle Val d’Elsa non mise più piede. Firenze perdeva un futuro sacerdote, il mondo avrebbe guadagnato uno di quegli scrittori che trasferiscono tutta la propria gloria al personaggio creato. Laddove Renzo e Lucia sono figure che riportano a Manzoni come Andrea Sperelli a D’Annunzio, Mattia Pascal a Pirandello, Zeno Cosini a Svevo, per Lorenzini è lui che viene ricondotto a Pinocchio per giunta tramite il nom de plume Collodi, lasciando soppesare ai posteri l’irrilevanza della paternità anagrafica rispetto all’esuberante creatura generata. Neanche per J.M. Barrie con Peter Pan e Lewis Carroll (altro pseudonimo) con Alice è andata così: dell’uno e dell’altro autore sono stati scandagliati sovrabbondanti ragguagli biografici con nomi, circostanze e immagini di bambini e bambine che li ispirarono. Per Collodi invece no, forse perché Pinocchio “ragazzino perbene” lo diventa solo a una pagina e mezza dalla conclusione e tutto il resto del tempo è di legno, sicché le sue Avventure restano prevalentemente la Storia di un burattino. Tradotto in circa 250 lingue, dopo 140 anni compiuti e molto celebrati nel 2023 stiamo ancora aspettando qualcuno che azzardi: il modello di Pinocchio fu il bambino tal dei tali (nella curiosa assenza di congetture, è sempre il ragazzo Carlo che per il tamburello si disfa della tonaca a rimanere l’ispiratore di se stesso).
Dal suo personaggio hanno tratto riduzioni, adattamenti, cartoni animati, oggetti di design, modi di dire e tant’altro. E’ stato protagonista di quarantasette film di cui il primo nel 1911 e l’ultimo che non sarà mai tale per più di breve tempo, perché appena un Pinocchio si congeda dalle sale giunge notizia di qualche regista intenzionato a dirigerne un ulteriore. Ma se Pinocchio è di tutti, è vero anche il contrario: ognuno ha il suo e ciascuno non è più opinabile degli altri, al pari dei personaggi di contorno concepiti dal genio fantasioso di Collodi: la Fata, il Gatto e la Volpe, Mangiafuoco, il pescecane e il tonno, il Grillo, molossi e can barboni e sciagurati ciuchini in una pluralità di adeguamenti alla psicoanalisi, alla satira politica, all’indagine sociologica, alle comparazioni letterarie. Il Pinocchio più recente (mai dire l’ultimo) è quello che, con l’intento di calare un dolce schiaffo sui nostri visi distratti, ha ideato e messo in scena il drammaturgo napoletano Davide Iodice, ospite a Venezia della Biennale Teatro 2025 con uno spettacolo molto amato dal direttore artistico Willem Dafoe e replicato l’8 di questo mese sulla scena partenopea del Mercadante. Il suo burattino si moltiplica nei tanti Pinocchi incarnati dai ragazzi “extra-ordinari”, portatori di disabilità con cui il regista è impegnato da anni: rivivono e raccontano assieme ai genitori la favola, che riecheggia in palcoscenico la loro quotidianità per arrivare spoglia di retorica a chi non la conosce. Più che una compagnia teatrale è una comunità che conta ormai circa duecentocinquanta tra attori professionisti, allievi normotipi, disabili, padri e madri.
Come fu un po’ Pinocchio il Lorenzini, come lo siamo stati quasi tutti (peggio per chi non ci passò), anche Iodice lo fu crescendo da “ragazzo difficile” nella periferia orientale di Napoli, dove il Vesuvio è più vicino e pure il rischio di ficcarsi nei guai. Prima la musica, poi la passione del teatro lo protessero dalla tentazione di scivolare in quel Paese dei Balocchi dove parecchi Lucignolo si vanno a dannare, e poiché ciascuno ha un angelo custode, o una fata turchina sotto le più diverse spoglie, il giovane napoletano s’imbatté in Andrea Camilleri che lo provvide degli aiuti necessari per frequentare e diplomarsi all’Accademia nazionale d’arte drammatica. Fu così che poi si trovò a collaborare con Carmelo Bene nella fabbricazione delle maschere per la sua celebre trasposizione di Pinocchio: “E lì avvenne la mia folgorazione con l’archetipo del burattino”, ricorda Iodice.
Pinocchio. Che cos’è una persona? E’ il titolo domanda che i ragazzi della Scuola Elementare del Teatro – questo il nome della “creatura” artistica di Iodice – rivolgono al loro maestro sulla scena, ed è anche la ragione per cui quella storia riesce ancora universale e senza tempo persino a non cambiarne la lingua: Italo Calvino sosteneva che la prosa di Collodi è così elegante da essere tentati di imparare il testo a memoria, al contrario di molti classici italiani su cui i lustri hanno depositato un abbondante strato di polvere.
Che cos’è una persona? “Una persona è un problema irrisolvibile”, è la risposta che il maestro dà agli alunni Pinocchi: se ciò vale per tutti, vale di più per chi vive in una condizione fuori dall’ordinarietà. Quelli che, mentre lottano non per diventare “normali” ma per essere se stessi paiono segnati, scrisse Giuseppe Pontiggia in Nati due volte, da “una delega collettiva a soffrire per gli altri. E il loro carico si ingigantisce perché vi si occulta quello universale”, gravati dai “non capisco” “di cui molti, anziché rammaricarsi, si compiacciono”. Forse perché “le ragioni dei deboli ci colpiscono solo quando diventano le nostre”. “Noi che lavoriamo con la diversità e la fragilità,” ha annotato Iodice nella presentazione dello spettacolo, “sappiamo come il concetto di normalità sia molto malinteso e pericoloso”. Ripartire da Pinocchio fa sì che la creatura di Collodi aiuti anche a comprendere come la normalità sia “il diritto ad avere momenti di felicità, di espressione, di condivisione”. Chi riapre la storia del burattino, che non la passò liscia per nessuna trasgressione, lo ritroverà mentre esclama sulla spiaggia, dopo la rissa con i compagni di classe, un “Dio mio! Che sarà di me…”. E’ un momento di sconforto così sincero che non gli cresce il naso. Perché non è vero, ogni lettore onesto dovrebbe riconoscerlo, che Pinocchio racconti sempre bugie.
Si rammenta spesso, quando si rievocano le origini del burattino, che Collodi pubblicò l’opera a puntate nel 1881 sul Giornale per i Bambini e non previde un epilogo gioioso. Tutt’altro: il calamaio gli si seccò al capitolo dell’impiccagione di Pinocchio per mano del Gatto e la Volpe che vogliono cavargli le quattro monete d’oro celate sotto la lingua. La crudeltà dell’autore non sorprenderà più di tanto se si riflette sulla sua attività di traduttore di Charles Perrault, Madame d’Aulnoy e Madame Le Prince de Beaumont grazie a cui Collodi s’introdusse al mondo delle fiabe, perché anche il Cappuccetto Rosso francese finisce col trionfo del lupo (è nella salvifica versione dei fratelli Grimm, prevalsa poi, che il cacciatore riscatta la bambina e la nonna). Fu una rivolta dei piccoli lettori del settimanale a imporre la prosecuzione della storia. E se Giovanni Spadolini affermò che Pinocchio è stato il capolavoro “della cultura laica”; se Benedetto Croce poté leggerlo come una “favola della vita umana”; se il cardinale Giacomo Biffi ne trasse una dotta interpretazione teologica, ciò fu grazie ai giovanissimi mittenti delle proteste che reclamavano un finale migliore. Più bello della morte. Fu una correzione dell’archetipo dal basso che spinse a forzosa adesione l’autore, il quale forse s’avvide allora, come Geppetto appena fabbricati i piedi al burattino, che la sua creatura voleva camminare da sola. Che poteva pure scappargli. Se Collodi si fosse impuntato sul “no”, se non avesse avuto anche un certo bisogno di quattrini, se l’epilogo fosse rimasto appeso a un ramo della quercia grande, un buon pezzo di critica letteraria, ma soprattutto dell’immaginario collettivo nazionale e persino mondiale sarebbe stato diverso. Con ragionevole certezza, la fiaba non sarebbe sopravvissuta agli anni e seppure il primo editore, Felice Paggi, l’avesse ugualmente pubblicata in volume, oggi Pinocchio lo leggerebbero soprattutto gli studiosi specializzati assieme alle altre opere collodiane per l’infanzia come Giannettino e Minuzzolo.
Senza quella “crociata dei bambini”, strozzato per sempre nel suo cappio, Pinocchio non sarebbe stato conteso, o di volta in volta disconosciuto e amato, da fascisti, comunisti e democristiani, da laici e cattolici, come è invece avvenuto lungo un percorso a zig-zag che lo storico Stefano Pivato ricostruì un decennio fa nel saggio Favole e politica. Con il fez, che sostituiva il berretto di midolla di pane, il burattino fu arruolato tra le camicie nere e tra i balilla; divenne più tardi “istruttore del Negus” negli albi illustrati editi da Nerbini e Marzocco; proseguì come protagonista di patriottiche avventure fino al tramonto della Repubblica sociale. Perciò non ci s’immaginava che nel dopoguerra sarebbe diventato un beniamino della Democrazia cristiana dopo lo sdoganamento cattolico di Piero Bargellini, che vide in lui la parabola del figliol prodigo e rovesciò il giudizio espresso negli anni venti dallo scrittore Giuseppe Fanciulli, concittadino di Lorenzini, secondo cui a Pinocchio mancava “la bontà tutta illuminata dalla fede del Padre nostro che sta nei cieli”. Ma l’imprevedibile burattino non avrebbe finito di stupire, perciò mentre la propaganda scudocrociata bollava Pietro Nenni e Palmiro Togliatti come il Gatto e la Volpe, e l’Unione sovietica era “il Paese degli allocchi”, il Partito comunista s’appropriava a sua volta di Pinocchio tramite i fumetti di Chiodino, avatar della creatura collodiana riconvertito a una visione laica e anticapitalista. Per il nobile fine si sarebbe mobilitato anche Gianni Rodari, che a metà degli anni cinquanta ristrutturò in filastrocca le sorti del burattino inquadrandolo dalle finestre di Botteghe oscure.
Pinocchio uno e centomila: addirittura, secondo Raffaele La Capria, sarebbe “l’unico vero personaggio della letteratura italiana”, possedendo “tutti i tratti principali della nostra stirpe. L’indole, il modo di essere e di manifestarsi, i vizi e le virtù. Tutti i tratti del carattere italiano, non uno soltanto”. La sua non era proprio una boutade adatta ai rapidi articoli che si consumano nell’intimità del mattino e si commentano la sera nella socialità delle terrazze, perché Pinocchio sembra tuttora fiammeggiare quale emblema di una certa “immaturità politica”: “quella per cui siamo sempre talmente schierati da una parte da non riuscire mai a comprendere le ragioni, e perfino l’esistenza, dell’altra parte. Mai c’è stato uno che riconoscesse di aver sbagliato, che ammettesse la propria colpa fino in fondo”, aggiungeva lo scrittore. E giù impietosamente, senza dimenticare che anche la storia del Campo dei miracoli fa parte dell’immaginario nazionale perché avremmo in testa una “psicologia del miracolo”, ovvero l’illusione “che da un momento all’altro tutto possa cambiare in meglio a causa di un evento improbabile che non abbiamo né preparato né contribuito a fare accadere con la nostra operosità e il nostro lavoro. Solo noi abbiamo in fondo alla testa questa idea di arricchire in breve tempo ‘senza durar fatica’, non importa con quali spericolate speculazioni e quali imprudenti iniziative. Solo noi incontriamo a ogni angolo dei furfanti come il Gatto e la Volpe che coi loro imbrogli e raggiri ci confondono le idee e fanno apparire normale ciò che normale non è”. Severo e chissà, forse anche giusto sarà stato La Capria, però il primo finale delle Avventure – con l’espiazione irredimibile dell’impiccato – continuerà a sembrarci alternativa peggiore malgrado tutto il resto.
Piuttosto, se una costante persiste nell’interpretazione della storia, è nel rapporto complicato tra il destino irregolare della creatura di legno e l’auspicato modello di “ragazzino perbene” che però ciascuno vorrebbe normare a suo modo: con massime di grilli, pozioni di fata, sentenze di giudici balzani e diagnosi di ampollosi ma insicuri dottori. Fu così che nel plumbeo 1977, quando Pinocchio non era lettura abbastanza impegnata da tentare il liceale medio, Edoardo Bennato rielaborò la favola per adattarla a tutta una generazione con un album musicale venduto in oltre un milione di copie. Pinocchio, nella sua aspirazione a diventare “normale”, si uniforma alle regole comuni finendo per rimpiangere i giorni in cui era un burattino ma almeno senza fili: ora invece “non fai un passo se dall’alto non c’è / qualcuno che comanda e muove i fili per te… / adesso la gente di te più non riderà / non sei più un saltimbanco / ma vedi quanti fili che hai”. Quegli stessi liceali che cinque anni prima, ancora bambini, avevano assistito incantati allo sceneggiato televisivo su Pinocchio diretto da Luigi Comencini (un classico con cui qualunque regista da allora s’è dovuto misurare) poterono riaccostarsi alla favola senza provare vergogna rispetto ai compagni di rito gucciniano. Su tutte le chitarre si diteggiarono gli accordi di E’ stata tua la colpa, Mangiafuoco e Il Gatto e la Volpe. E tuttora si diteggiano. Perché è vera un’altra cosa notata da La Capria: per Pinocchio, come per ogni libro, c’è una doppia lettura, quella relativa all’epoca e agli intenti dell’autore e l’altra che lo coniuga al tempo in cui viene letto. Rappresentato. O cantato.
Pinocchio, quando rincontra Geppetto nel ventre del pescecane, al flebile chiarore dell’ultima candela rimasta gli domanda: “E dopo?”. Cosa accadrà quando si sarà consumata? “E dopo, caro mio, rimarremo tutt’e due al buio”. E’ allora che il burattino si fa coraggioso anche in nome del padre e lo convince a fuggire dal mostro marino. Ciascuno paventa, come ciascuno anela, a un “dopo”. E tutti si fanno la stessa domanda mentre s’accorcia la candela: Collodi o la sua creatura, che forse si scriveva da sola, quella domanda l’ha lasciata in eredità a chiunque si cimenti con la storia. “E dopo?” domandano i figli ai genitori nel Pinocchio di Iodice e tante sono le risposte. Per esempio: dopo ci inventeremo altre cose, troveremo nuove strade, andrai allo stadio con tuo fratello, ti farò le trecce, mangeremo la merenda, giocheremo, ce n’andremo a dormire. E dopo ancora? “Dopo ricomincia tutto da capo. Dopo non me lo chiedere, è così bello adesso”. Così funziona questa comunità teatrale che non ha più una sede sua per lavorare nella città assurta a brand di sentimenti turistici e risentimenti locali, sicché fruisce dell’ospitalità del Teatro di Napoli e del Trianon per quattro giorni a settimana, quando neurodivergenti e normotipi si confrontano sognando possibilità di vita e di scena. Il futuro “è un problema che ancora non è stato risolto”, ma nell’attesa bisogna “riempire di significato il tempo” prima che s’estingua la candela.
Come si faccia a riempire il tempo provò a spiegarlo Carmelo Samonà in un libro amato particolarmente da Federico Fellini. S’intitolava Fratelli ma scaturiva dall’esperienza dell’autore con il figlio disabile, come accadde per Pontiggia: ne raccontò il fraseggio lento quanto i gesti delle mani, che diventava qualche volta “senza peso né tempo, capace di librarsi nell’aria in rapidi fiotti”; raccontò dei discorsi e delle pause nei dialoghi loro quasi fiabeschi: “Catalogo le parole, i modi di dire, i silenzi; cerco di entrare in possesso di una tastiera di corrispondenze precise che mi dia, di volta in volta, il senso delle figure più arcane, delle negazioni sospette; accetto, in breve, quell’universo di controsensi come se fosse un sistema leggibile, cui basti applicare la chiave esatta per decifrarlo”. I silenzi sono nei tanti puntini di sospensione che intramezzano le domande e le risposte come ne Le avventure di Pinocchio: “Non ho mai conosciuto linguaggio” scrisse Samonà “in cui abbiano tanta parte i silenzi; silenzi differenziati e attenti, catalogabili in forme, in indizi, garanti di sospensive crudeli; silenzi che trasformano in intervalli secondari, per quanto utili al senso, la pienezza dei suoni e conferiscono al non detto una spessa profondità, un timbro mobile e denso che provoca chi l’ascolta a intercettare e intuire”.
E dopo? Chi lo sa. Dotti, medici e sapienti – come li intitolò Bennato nel suo album – sanno solo che “il burattino è sempre vivo; ma se per disgrazia non fosse vivo, allora sarebbe segno che è morto davvero”. Noi sappiamo solamente che la storia di Pinocchio è pronta per ricominciare ogni volta che finisce, perché c’è sempre chi s’appresta a riprenderla nella maniera sua. In più stavolta sappiamo che qualcuno racconterà – finalmente – anche la storia di Carlo Lorenzini in un film per la Rai. Si è impegnato nel progetto lo storico Giordano Bruno Guerri, presidente del Vittoriale degli italiani, che con il Comitato bicentenario collodiano sta progettando gli eventi del 2026 per celebrare i due secoli dalla nascita dello scrittore. “Ho sempre pensato che fosse un peccato non avere narrato una vita appassionante come quella di Collodi, sconosciuta al grande pubblico malgrado tutte le pellicole dedicate a Pinocchio” dice Giordano Bruno Guerri, che sarà il consulente storico dell’opera prodotta dalla Quality Film in cui reciterà pure, impersonando il direttore del giornale su cui Collodi pubblicò la storia a puntate (o, come la chiamava lui, la “bambinata”). Protagonista della vita intellettuale toscana, combattente volontario nella Prima e nella Seconda guerra d’indipendenza, uomo di arguta cultura e di vasti interessi, il papà di Pinocchio “fu un tipo brusco, burbero, che non si tirava mai indietro nelle zuffe giornalistiche. Oggi lo definiremmo un polemista, ma nella sfera privata risultava persona amabile, simpatica e divertente. L’Italia scaturita dal Risorgimento non lo aveva soddisfatto e quello che descrive nella storia del burattino è un paese senza riferimenti geografici precisi, che potrebbe collocarsi sotto qualsiasi latitudine ma ovunque sia trasuda povertà da ogni episodio: Geppetto si vende la casacca per comprare l’abbecedario, il Gatto e la Volpe sono due poveri disgraziati come lo è Mangiafuoco. Non manca la polemica sulla giustizia, che sembra una costante della storia nazionale”, osserva Guerri, che è consigliere a vita della Fondazione nazionale Carlo Collodi e vecchio estimatore di Pinocchio. “Lo preferisco decisamente, e l’ho anche scritto” sottolinea “alla saga del Signore degli Anelli”. A conti fatti il martello del burattino non stecchisce un drago ma un grillo, e l’orribile serpente che gli sbarra la strada muore per una convulsione di risate. Quanto latita l’epica nordica.
E’ invece curioso ma accertato che, malgrado la perpetua presenza di Pinocchio, il vate Gabriele D’Annunzio sia stato tra i pochi italiani ad averlo bellamente ignorato: “Non c’è traccia di quel libro fra i trentatremila volumi della biblioteca del poeta né si rinviene alcun riferimento a Collodi nella sua corrispondenza”. Eppure, per tornare alle parole di La Capria ma secondo una diversa chiave di lettura, Giordano Bruno Guerri rileva una caratteristica comune a quei due universi letterari: “Tra le tante magliette in vendita al Vittoriale è quella con la parola ‘Disobbedisco’ la più richiesta dai visitatori. In fondo anche Le avventure di Pinocchio sono un libro della disobbedienza e forse proprio per questo non risulta invecchiato rispetto a Cuore, che è il suo contrario, un tomo dell’obbedienza grondante retorica e culto patriottico postunitario. Noi ci collochiamo, naturalmente, dal lato di Pinocchio, e chissà che alla fin fine non spuntino proprio tra i Franti deamicisiani e i Lucignolo collodiani gli eroi alla Enrico Toti, i tipi ulissidi con cui preferirei identificarmi”.
Collodi lasciò d’altra parte qualche spazio all’ambiguità nelle ultime parole di quella “bambinata”: “– Com’ero buffo, quand’ero un burattino!... e come ora son contento di essere diventato un ragazzino perbene!... –”.
Per noncuranza o per sottile ironia si chiude coi puntini sospensivi la conquista, o la resa, alla normalità.