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Una biografia di Joyce? Di più, un romanzo che canta con la sua voce

Marco Archetti

In questo libro, Edna O’Brien libera lo scrittore irlandese dal giogo biograficista, preoccupandosi invece di ricrearlo sotto i nostri occhi tenendosi sempre lontana dall’idea della sacra mummia con didascalia

Questa non è una biografia. Questo è un romanzo che canta. L’ha scritto Edna O’Brien nel 1999, si intitola “James Joyce, una vita”, lo pubblica Einaudi e l’hanno tradotto Enrico Terrinoni e Fabio Pedone.

Questo è un romanzo che ha per protagonista James Joyce, Edna O’Brien è il suo aedo e così la scrittura si fa puro ritmo, pura metrica, è tutta musica. Il recitar cantando domina i primi due capitoli e serpeggia sempre, aprendo ariosi spazi narrativi più che documentali, facendo – letteralmente – romanzo di ogni informazione, ripompando sangue in uno scrittore che, altrove, è stato raccontato in soggezione rotulea come santino o santone, supremo pinnacolo e cacumine inarrivabile e indicibile, irraccontabile se non con deferenza religiosa, frammento d’osso per il reliquiario della santa Oreficieria letteraria. Edna O’Brien non fa niente di tutto questo. Al contrario, libera Joyce dal giogo biograficista, lo smamma dal sottovetro, dalla Hall of fame, dalla cupa e nobile cornice, preoccupandosi, al contrario, di portarlo a noi e di tirarne fuori un racconto, di narrare un uomo e uno scrittore, di ricrearlo sotto i nostri occhi tenendosi sempre lontana dall’idea della sacra mummia con didascalia. Nessuna nota a piè pagina, non una Messa di prefazione o di postfazione, e in pattumiera anche tutto il cucuzzaro dottrinale-ermeneutico. Perché – evviva – qui c’è solo Joyce, uno che fu tanti sé stesso, incarnato in tanta letteratura irriducibile alla definizione, bastione e pietruzza, re e topolino. 

 

            

 

“C’era una volta, a passeggio per le vie di Dublino, un uomo che aveva deciso di chiamarsi Dedalus il mago, costruttore di labirinti, artefice delle ali di quell’Icaro che volò tanto in alto da cadere.”  Comincia così, O’Brien, e non molla più. “Un indegno gesuita sdegnoso del corpo terreno di Cristo, un farfallone, un fastoso fratello cristiano, un joyoso tuttofare, un impareggiabile mimo, un frate dalla tonaca di penne, un timoniere, un baleneone di Pulberg, un signore col dono tutto irlandese della scrittura maiaculata”.

Come parlare di Joyce senza una lingua, senza la sua lingua? O’Brien lo sa e la usa, generando sotto i nostri occhi la concretezza vivida in cui prende forma e si muove questo “uomo dai gusti dissipati e dalle contraddizioni madornali”, che se ne stava lì “a maledire quella società e quella Chiesa per cui sua madre, come tante madri irlandesi, non era stata se non un vaso crepato dalle gravidanze.”

Un bel viaggio in quei “calamai stregati”, le bicocche sempre più laide e sgangherate in cui, anno dopo anno, si insediava la famiglia Joyce in disperante anticlimax abitativo – declassati dalla zona sud di Dublino ai quartieri più insalubri, dalle zone middle-class a Mountjoy Square, mappa determinata dalle traiettorie di fuga dagli ufficiali giudiziari.

Famiglia Joyce, ossia: miss May Murray, figlia di un commerciante di vini, diciassette gravidanze e un totale di dieci persone da sfamare tutte col cognome di John, quattordici anni più di lei, uomo estroso e felice, fidanzato ostinato, gagliardo affabulatore e marito feroce, poi irrimediabilmente vinto, infelice, messo a dura prova dalla miseria. E ovviamente James, che tra le pagine ci viene incontro per com’era, bambino fragile e isterico e giovane ubriacone affezionato a osterie che si chiamavano “Il buco nel muro”, a casa sempre a tarda notte, ma solo se raccolto da terra e accompagnato. Tre batticuori fedifraghi e un internamento schivato – Joyce qui evocato e quasi personaggio, lui stesso, della propria letteratura. Che si eccitò per la prima volta da bambino, quando una tata gli disse di voltarsi perché doveva far pipì. Joyce e l’Irlanda, mai solo sfondo. La madre che muore e che sarebbe tornata a tormentarlo, “liberatasi dal drappo funebre, a guardarlo dall’altro capo della morte”. E Nora Bernacle, coi capelli ramati, apparsa la prima volta in Nassau Street mentre James calzava scarpe da pezzente, lei venti e lui ventidue anni – l’oca bernacla cioè Dio, “l’anima più bella e semplice”, a cui James regalò il fardello di un’insicurezza materiale eterna: coppia di straccioni a Zurigo, pensò di lasciarla mentre era incinta ma lei non lo seppe mai.

Joyce tirava sassi ai cani – li teneva in tasca – e morì a Fluntern, Zurigo. Un anziano che viveva nella sua stessa pensione chiese al becchino chi stesse seppellendo. “Herr Joyce”. “Chi?” “Joyce”. “Chi?”.  Joyce ne avrebbe scritto. E, dice O’Brien, “con tutta l’angoscia e lo scompiglio che appartengono alla vita e alla morte”.
 

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