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l'artista
Moretti d'Olanda. Tornare al poeta crepuscolare nella nostra epoca urlante
Un ricordo personale riporta alla luce il poeta dimenticato di Cesenatico, di cui esce ora un carteggio con amici olandesi. La sua scrittura sommessa e intimista come un’alternativa morale e stilistica al fragore del suo tempo e forse anche del nostro
Voglio ribellarmi alla ruota stritolatrice del tempo, opporre resistenza all’inesorabile schiacciasassi della memoria, grazie alla complicità di chi ospita queste brevi righe. Dai brandelli di ricordi di scuola elementare riaffiora il nome di Marino Moretti – non ricordo nemmeno più quali suoi versi erano sul sussidiario, ma c’erano – e perciò, profittando della recente pubblicazione del suo Lettere agli amici d’Olanda (1927-1948) (Edizioni di Storia e Letteratura, a cura di Dina Aristodemo), vorrei sottrarre, almeno per gli spiccioli minuti necessari alla lettura di questo pezzo, il poeta di Cesenatico allo spietato mostro dell’oblio. Lo so che è ineluttabile, che la bocca di Kronos, come le fauci di Moloch in Cabiria, ingoia e maciulla ogni cosa che sa d’umano, che nihil humani ab ore alienum putat; però non è giusto.
Mi son rimasti impressi due frammentari versi dell’intera produzione morettiana: “Piove. E’ mercoledì. Sono a Cesena”, in cui si coglie il mood antidannunziano di Moretti, non più quel “piove” battente e incalzante nella pineta (pisana) del Vate, bensì un “piove” isolato, asciutto e meteorologico, senz’altri impetuosi crescendo semantici. L’altro suo verso, all’apparenza dimesso eppure potente compendio d’un globale sentire, è “Io non ho nulla da dire”, precedente e più radicale del montaliano “Codesto solo oggi possiamo dirti, ciò che non siamo, ciò che non vogliamo”. Moretti aveva aderito al “Manifesto degli intellettuali antifascisti” di Benedetto Croce.
Ma il libro appena pubblicato porta alla luce un aspetto finora rimasto in ombra nel già iper oscurato poeta, la sua perlustrazione e descrizione, ai lettori del suo tempo, della realtà dei Paesi Bassi. Moretti tra il ’27 e il ’32 era stato più volte in Olanda, ospite di amici (la nobildonna Tuddie von Schmidt auf Altenstadt) e frequentatore del traduttore e letterato Enrico Morpurgo, coi quali restò poi in contatto epistolare. I suoi vividi resoconti, intrisi di dettagli e di vita vissuta sorprendenti anche per un turista assiduo dei Paesi Bassi, uscirono sul Corriere della Sera e furono poi raccolti in Fantasie olandesi (1932); era un testo successivo di cinquant’anni di quello celebre di Edmondo De Amicis (Olanda, 1876) che aveva dischiuso al pubblico italiano la realtà neerlandese, raccontando l’epica d’un paese strappato al mare dall’ostinazione dell’uomo. Per questo gli era necessario, per non ripetersi, calarsi nella quotidianità e raccontare dettagli sconosciuti; peraltro il gusto delle piccole cose era sommamente congeniale a Moretti, come emerge anche nella sua poetica. Ecco allora i theemuts e il keukenstoof, i bruidstranen e i muisjes, oggetti e dolcetti d’uso comune nell’Olanda di cento anni fa. Il libro, di godibile lettura e di vivace interesse socio-antropologico, non ebbe fortuna per una disavventura che ora il carteggio svela: Moretti aveva usato come espediente narrativo un’interlocutrice che però non era immaginaria, bensì reale, citata per nome e cognome (Ini Bloem), una delle persone che l’avevano introdotto nella vita dei Paesi Bassi. Costei, all’uscita del libro, per motivi di privacy violata, fece causa all’autore e bloccò la diffusione del testo italiano, nonché la sua traduzione in neerlandese. Un’esperienza amara per Moretti che sospinse quella che era stata la sua felice esperienza olandese nel limbo dell’oblio personale.
Un esile amo, certo, per ripescare l’intera figura letteraria di Moretti dal dimenticatoio. Ma ne vale la pena? Sì, perché la sua “emigrazione interiore” in tempi di roboanti proclami politici e sociali, e poi di libertà angustiate, è diversa da certo vuoto minimalismo (an)estetico odierno: nella sua scrittura sommessa, nelle sue rime in penombra, trova dimora poetica quella “maggioranza silenziosa” (la maggioranza è sempre silenziosa, soprattutto in epoche urlanti) che non s’esaltò alle arroventate grida di Piazza Venezia, che si discostò dalle nequizie del regime quasi più per ragioni di stile che di contenuto, che mal sopportava vuote magniloquenze e beceri eloqui, che nell’imperversare delle Grandi Parole cercò rifugio in un parlar semplice e non enfiato, sottovoce. Se non altro perché non è scontato “aver qualche cosa da dire / nel mondo, a se stessi, alla gente. / Che cosa? Io non so veramente / perché io non ho nulla da dire. / Che cosa? Io non so veramente / ma ci sono quelli che sanno. / Io no, lo confesso a mio danno / non ho da dir nulla ossia niente”.