
La recensione
Il paniere dell'innominabile Landolfi
Adelphi raccoglie gli elzeveri pubblicati dallo scrittore sul Corriere della Sera dove si rivela il suo spericolato sperimentalismo, «prove di voce» contraffatte da narrazioni flebili, fioche, quasi scancellate
Sebbene la tentazione di «scambiarlo con uno scrittore che non ha nulla da dire, che si arrampica sugli specchi pur di arrivare alla fine delle quattro cartelle» non possa non sfiorare – ammetteva Carlo Bo – il lettore dei cinquanta elzeviri che Landolfi consegnò, fra il 17 maggio 1963 e il 27 settembre 1965, al «Corriere della sera», e riuniti, nel 1968, in volume da Vallecchi, col titolo “Un paniere di chiocciole” (appena ripubblicato da Adelphi), si dovrà invero ammettere che sia proprio in queste «prove di voce» contraffatte da narrazioni flebili, fioche, quasi scancellate, che Landolfi rivela il proprio spericolato sperimentalismo. Favorito dalla sede editoriale, che l’induce ad avvalersi assai meno che in altre occasioni d’un lessico arcaizzante, Landolfi unisce qui, senza ulteriori superfetazioni, la sua preferenza per le atmosfere fantastico-surreali ad una metanarrazione che gli permette d’occupare una posizione liminale rispetto a ciò che racconta. Egli – annotava Guido Guglielmi – sembra non poter fare a meno di porsi là dove «muoiono i racconti».
Solo una prospettiva sguincia, aristocraticamente discreta, una volta riconosciuta l’insufficienza se non la torpidezza della lingua rispetto al reale e la conseguenziale impossibilità per la conoscenza d’essere meno che frammentaria, parrebbe permettere di coltivare un’affabulazione tramata di ombre, di creature inafferrabili, di stanze torbide, di odori dolciastri e putridi, evocatori di «immagini incomprensibili e di paesaggi mai veduti». Una scrittura del decomposto, che, per meglio aderire alle atmosfere che divisa, si slabbra, fingendosi casuale, distratta (basti a provarlo l’elzeviro “Ombra di forca”), disinvestendosi d’ogni pretesa di compiutezza, per assumere una postura non curante, «come di chi» – ha scritto Italo Calvino – «ha sempre saputo che il fare è solo spreco, fumo, insignificanza». Anche in quei casi in cui – ad esempio nell’incipit di “Colpi di spillo” – la cadenza appare più didascalica e saggistica, presto si fa largo una sottile, perturbante vaghezza, che si traduce, sul piano diegetico, in una insistita pratica dell’abnorme, delle “forme alterate”, non di rado campionate episodicamente, e, su quello stilistico, in un tono associativo e divagante, sancito dal ripetuto ricorso alle ellissi discorsive: agli innumeri “eccettera”.
Si porgono così al lettore una serie di referti narrativi dominati da un certo strabismo rispetto all’oggetto del racconto, quasi che questo dovesse piuttosto usarsi, ma solo per parlare d’altro, di «qualcosa di non parlabile». Che non sembra però doversi confondere, in ragione d’una più o meno recondita intenzione di far incontrare Landolfi con il postmoderno, con la confessione con cui egli, ora in modo più diluito, se non vaporizzato come in questi elzeviri, ora in modo più esplicito e diretto come in “La Biere du pecheur” (1953), affronta il motivo della «fine d’una lettura come vita, rivelatasi, crudamente, una letteratura come morte». Piuttosto, “l’innominabile di Landolfi” sarebbe da riconoscere in una dichiarata (ad esempio, nella pagina in cui egli paragona il poeta a Maria Giuseppa, nel racconto eponimo del 1954) inutilità della sua scrittura, poiché, secondo quanto l’assidua frequentazione della poetica di Gogol’ gli aveva suggerito, l’arte è anche inutile a sé stessa, sicché quanto più lo scrittore cerchi d’attribuirle consistenza formale tanto più si trova restituito allo «spaventoso privilegio d’una conscia impotenza».