facce dispari

Bruno Alessandro, la “voce” degli altri da più di mezzo secolo

Francesco Palmieri

"Un buon doppiatore deve saper recitare ma essere umile. Deve ricordarsi che è al servizio dell’attore e che questi ha scelto come impostare il personaggio. L’apporto creativo del doppiatore consiste nella concentrazione emotiva". Intervista

Lui spiega che se lavora ancora, e con gusto, lo fa “per puro egoismo”. La verità è che Bruno Alessandro, decano dei doppiatori, novant’anni il prossimo dicembre, non potrebbe rinunciare a un mestiere che troppo lo diverte e che gli piace anche insegnare (è tra i docenti alla Voice Art Dubbing di Roma). È stato la voce italiana di decine di attori, da Bruno Ganz a Gene Hackman a Donald Sutherland e a Philippe Noiret de “Il postino”; fu il Re Tritone nella “Sirenetta II”, Babbo Natale in più occasioni e Geppetto nel “Pinocchio” di Guillermo del Toro. Ai non più giovanissimi si può ricordare che Bruno Alessandro fece “parlare” anche Horst Tappert, ossia l’ispettore Derrick, nei ventun anni in cui la Rai trasmise la serie poliziesca tedesca con episodi che arrivarono a sei milioni di spettatori tra il 1979 e il 2000.

 

Doppiatore per caso o vocazione?

Avrei dovuto fare il maestro elementare a Torino, dove erano emigrati i miei genitori e dove sono cresciuto, però dopo il diploma m’iscrissi a una scuola di recitazione. Cominciai da dilettante con un gruppo di futuri talenti, poi vinsi un provino con la Radio Svizzera Italiana. Il direttore di doppiaggio era un piemontese che aveva combattuto nella Repubblica Sociale, e io che ero di tutt’altre convinzioni credo di non avere conosciuto persona migliore: ho imparato da allora a giudicare gli uomini non in base al credo politico, ma a ciò che sono. A Lugano però alle otto di sera era già un mortorio, sicché affrettai le nozze con la mia attuale moglie e cominciai a spedire domande a vari teatri. Mi presero allo Stabile di Genova e ci rimasi sette anni. Non era facile mettere assieme pranzo e cena.

 

Quando approdò a Roma?

Pensando che offrisse più chance ci trasferimmo nell’estate del ’70. Agli inizi fu difficile, arrotondavo dando lezioni di latino e matematica, finché nel ’73 arrivò la svolta: facevo teatro con Mario Bardella e Gabriella Genta, che era anche direttrice di doppiaggio per la Cid, una delle cooperative più importanti. M’invitò a fare un turno e piacqui: il giorno stesso mi telefonarono per chiedermi di diventare socio. Toccai il cielo con un dito: significava la serenità. Purtroppo la Cid di lì a poco fallì.

 

Che era successo?

Lavorava tantissimo per il cinema italiano, che pagava a babbo morto, e a un certo punto non resse più. Passai alla Sas, un’altra cooperativa che ospitava voci storiche come Emilio Cigoli, il doppiatore di John Wayne.

 

Le soddisfazioni indimenticabili?

I doppiaggi in due film di Alejandro Jodorowsky: “El Topo” e “La montagna sacra”. Con le maggiorazioni ricevute comprai finalmente l’automobile, una Fiat 600 gialla che cammina ancora. Ce l’ha mia figlia come reperto d’epoca.

 

Con quale attore s’è sentito più coinvolto?

Günter Lamprecht nella serie tv “Berlin Alexanderplatz” di Fassbinder. Non ho dimenticato una scena meravigliosa in cui Lamprecht, nella parte di Franz Biberkopf, è chiuso in una stanza e s’ubriaca ininterrottamente. All’arrivo di Eva, un’amica interpretata da Hanna Schygulla, si produce in un monologo in cui batte il tempo delle parole con la mano destra sul pavimento. Di una bellezza pazzesca.

 

Poi arrivò Derrick.

Al principio la Rai comprò poche puntate, ma il successo della serie fu crescente e arrivò ai record dopo un po’ di tempo. M’inorgoglì vincere il provino per la voce di Tappert perché c’erano colleghi straordinari: Gianni Musy, Michele Kalamera, Carlo Valli. Quando uno s’aggiudicava un ruolo, gli altri non erano invidiosi. Non si può esserlo di un amico. Pure questo è un bel ricordo.

 

La serie quanto la impegnava?

Per doppiare un intero pacchetto di nuovi “Derrick” ci volevano tre o quattro mesi. Allora si lavorava con calma perché la qualità contava.

 

Come si aderisce con la voce al personaggio?

Un buon doppiatore deve saper recitare ma essere umile. Deve ricordarsi che è al servizio dell’attore e che questi ha scelto come impostare il personaggio. L’apporto creativo del doppiatore consiste nella concentrazione emotiva: se l’attore ride ti diverti anche tu, se piange ti commuovi. Non tutti sono capaci, soprattutto oggi che i doppiatori non vengono quasi più dal teatro. E si sente.

 

Ci sono film più difficili?

Nei film attuali nove volte su dieci si richiede una recitazione senza colori, ma nei film in costume come in quelli d’un tempo serve un pizzico di retorica in più. Che non è facile.

 

Quanto è cambiato il doppiaggio?

Ora conta spendere il meno possibile a discapito della cura. Non che il lavoro possa essere scadente, ma di una prestazione accettabile ci si accontenta. Se prima per doppiare un film occorrevano venti turni, ora ne bastano otto. I minori incassi portano a ridimensionare le spese. Ma la fretta è nemica del bene.

 

Consiglierebbe il mestiere?

Solo a chi prova irrinunciabile passione. Per il futuro vedo ancora una speranzella, ma con un gran punto interrogativo.

 

Quale?

L’intelligenza artificiale. È questione di tempo e di risorse investite, poi non solo sarà usata nel doppiaggio ma potrà rielaborare la voce esatta di un attore in qualsiasi lingua. Fin nelle minime sfumature. Spero che avvenga il più tardi possibile e che i colleghi si sveglino per rivendicare una tutela normativa, almeno in Italia, però non so quanto si riesca a imporre vincoli al mercato, che si avvantaggerà di un notevole risparmio di cui beneficeranno anche i compensi dei grandi attori doppiati.

 

Cosa si salverà?

Sicuramente il teatro, che resta un grande amore: dal 27 al 29 maggio riporterò in scena “Arsenico e vecchi merletti” al Belli di Roma. Ci si diverte pure a novant’anni.

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