
Pietro Longhi (1701-1785), “Il risveglio della dama”
Attualità della Rosaura di Goldoni, non la solita bionda
Consorte prudente che difende la sua autonomia senza sacrificare lo status. La “Moglie saggia”, scritta nel 1752, oggi torna a teatro con la regia sofisticata e giustamente cupa di Giorgio Sangati
Sulle donne della commedia goldoniana esiste una letteratura sconfinata, un numero di articoli impressionante e una quantità spropositata di tesi, in gran parte pubblicate in abstract su Academia.edu, la piattaforma sulla quale si mettono in luce gli aspiranti dottori di ricerca e che ti chiede un euro al mese per svelarti chi di loro abbia citato un tuo testo o un tuo lavoro, insomma un posto dove si promuovono utili relazioni a pagamento calmierato. Dopo essermi imbattuta qualche giorno fa al Teatro Goldoni di Venezia in una declinazione della Rosaura che mancava dai palcoscenici italiani da circa quarant’anni e che più che alle omonime furbette e irascibili della tradizione poteva dare dei punti alla marchesa de Merteuil delle “Relazioni pericolose”, anzi la anticipava di trent’anni esatti e a differenza di quella raggiungeva il proprio scopo senza colpo ferire e senza conseguenze visibili, cioè senza morti, ho condotto una ricerca piuttosto approfondita sulla suddetta piattaforma, senza trovarne traccia. Nella commedia umana di Goldoni compaiono ventinove personaggi che rispondono al nome di Rosaura, ventotto dei quali sono assimilabili alla maschera omonima della Commedia dell’Arte, cioè alla figlia di Pantalone de’ Bisognosi, sempre descritta come chiacchierona, vivace, irascibile, gelosa, vanitosa, dotata da madre natura di lunghi capelli biondi, insomma una antesignana della dumb blonde del cinema, nonché provvista di un baule di costumi azzurri decorati di nastri rosa che sono la certificazione iconografica della sua natura di intrigante sciocchina.
Quello delle “Relazioni pericolose” è un mondo destinato all’estinzione. La borghese di Goldoni è antesignana di una società di là da venire
Questa Rosaura “Moglie saggia” che oggi torna a teatro con la regia sofisticata e giustamente cupa di Giorgio Sangati che, dopo essersi informato sui gusti musicali dei veneziani dell’anno di composizione dell’opera, il 1752, ha fatto rielaborare il Tartini del “Trillo del diavolo” e l’ha inserito come colonna sonora dello spettacolo, è una giovane donna posata che non si guarda mai allo specchio, che non strilla, che detesta le chiacchiere, che mette a tacere la cameriera pettegola e che rintuzza i cicisbei. Nata alla metà del Settecento in cui non è ancora stato inventato il telaio meccanico che è alla base dell’evoluzione tecnologica, economica e dunque sociale dell’occidente, Rosaura è una borghese che legge, che studia e che trova nei libri, anzi “nei lumi”, la luce giusta, l’angolatura adatta per avere ragione del marito nobile, incolto e collerico che la vuole ammazzare e della sua amante che ne è il contraltare al femminile, entrambi esponenti di una società al declino, incapace di dominare le proprie passioni e di tenersi occupata altrimenti che con cacce, giochi di carte, tradimenti, orge: lui vuole avvelenarla, lei umiliarla perché socialmente inferiore, finiranno entrambi domati. Il marito di Rosaura, Ottavio, ricondotto a casa, umiliato, rinsavito e conscio che una parola della moglie potrebbe mandarlo a processo, la marchesa Beatrice grata alla rivale che crede le abbia salvato la vita.
La marchesa de Merteuil, per orgoglio di casta, finisce vittima dei propri intrighi, Rosaura no: immaginate entrambe da uomini, uomini che conoscono benissimo i limiti nei quali le loro contemporanee sono costrette a muoversi e li deplorano, sono entrambe colte, abili, perspicaci, consce dei propri meriti. Ma la marchesa immaginata da Choderlos de Laclos è esponente di un mondo destinato all’estinzione, la borghese illuminata di Goldoni è antesignana di una società che deve ancora venire e che volessimo essere onesti non si è ancora realizzata come dovrebbe. E’ un’intrigante per ragioni di forza maggiore, non per diletto o tantomeno per spirito di rivalsa. Non avesse intuito che il conte Ottavio vuole eliminarla con una limonata “torbidetta” di veleno, se ne starebbe felice fra i suoi libri. E’ moglie saggia perché si salva la vita e la posizione sociale, che non intende affatto abbandonare, e perché la saggezza, come suggerisce Goldoni, è felice derivazione della cultura, della capacità di discernere e di saper convogliare la rabbia e la frustrazione in azioni utili e non delittuose, e lo scrive anche nell’incipit del testo, peraltro ormai introvabile tanto che per scrivere questo articolo ho chiesto allo Stabile del Veneto la cortesia di mandarmi il copione: “Non è che una donna onorata abbia da tollerare tranquillamente i torti che dal marito gli vengon fatti: ha da cercare di rimediarvi, ma con prudenza. L’uomo ha un certo grado sopra la donna di autorità e preferenza, che non soffre di essere da lei corretto, quando l’amore non gli facciano esser care le correzioni. Se quest’amore vien corrisposto, la cosa è facile, ed il Marito non può essere che compiacente. Ma s’ei non ama la Moglie, ed è da qualche altra passion prevenuto, convien che la donna conservi l’affetto, ed adoperi la prudenza”.
Che i veneziani applaudissero nel febbraio del 1752 questa femme savante non spocchiosa come quelle di Molière ma gelida e tenace, prudente nel senso etimologico e dunque originario del termine, pro-vidente, cioè capace di guardare lontano, e che nel novembre dello stesso anno festeggiassero anche la prima rappresentazione della Mirandolina locandiera, abile a mercanteggiare come a trattare gli uomini, è molto comprensibile: mentre la Serenissima aveva già imboccato da tempo l’ultimo tratto della propria parabola, ogni anno un po’ più esclusa da rotte mercantili che ormai passavano altrove, le donne veneziane continuavano invece ad affermarsi in ogni campo. Un anno prima della messinscena della “Moglie saggia” era nata Elisabetta Caminer, futura filosofa e prima editrice conosciuta, cognata di Gioseffa Cornoldi che avrebbe fondato la prima rivista femminile italiana, “La donna galante ed erudita”; un secolo prima la Laguna aveva tenuto a battesimo la prima laureata al mondo, Elena Cornaro Piscopia, alla quale da qualche anno è stata dedicata una targa sul palazzo di famiglia accanto al Ponte di Rialto dove un paio di domeniche fa era bloccata una quantità di gente inverosimile in attesa della sfilata acquea “della Pantegana” (volevo andare a fare ricerca su questa Rosaura negli archivi della casa di Goldoni e non sono riuscita ad attraversare né questo né altri ponti, il Canal Grande era inagibile, per cui ho dovuto scusarmi per telefono con i custodi che gentilmente si erano messi a disposizione in un giorno festivo), e un secolo e mezzo prima aveva dato alle stampe e fatto circolare il dialogo “Il merito delle donne” di Modesta Pozzo de’ Zorzi, nom de plume Moderata Fonte, fra i primi manifesti femministi dopo la “Cité des dames” di Christine de Pizan, poetessa e storica tardo trecentesca, che comunque era nata a Venezia anche lei.
Ma per tornare al punto, a differenza della Francia, per non dire del resto della penisola, essere donna nella città che ha un nome di donna non è mai stata una discriminante e anche trecento anni fa i femminicidi o gli uomini violenti non la passavano liscia benché, certo, per portarli in tribunale bisognasse potersi permettere un avvocato. Le leggi, però, c’erano, anche quelle a tutela del patrimonio e della potestà. Malgrado la società veneziana fosse di stampo maschile e venisse governata esclusivamente da uomini, fino alla caduta della Serenissima la libertà e le possibilità di cui godeva il genere femminile non ebbero eguali in nessun altro luogo d’Europa e del mondo: le donne godevano di diritti sui figli e sui propri beni personali (ai maschi di famiglia era vietato persino star loro d’attorno mentre redigevano il testamento o siglavano contratti), avevano libertà nella vita sociale e nella gestione di attività economiche e nell’arte: se adesso noi del W20 e delle numerose associazioni femminili ci vantiamo nei congressi internazionali che le italiane potessero stipulare contratti societari a metà del Trecento e avviare attività in proprio come le vedove Uliana e Caterina che avviarono un laboratorio di profumi o Marietta Barovier che, è cosa nota, inventò la perla rosetta e guidava una fornace, lo facciamo sapendo di mentire. Non erano italiane, erano veneziane. Quando l’altra sera a teatro il mio vicino, un ventenne altissimo con i capelli lunghi e l’aria molto saputa, ha osservato che questa Rosaura non sarebbe mai stata immaginata nello stato Pontificio (sì, ci sono anche ventenni che non chattano solo di Tony Effe e dei suoi commerci mancati con Tiffany) ha perfettamente ragione, e comunque trovatela, un’intellettuale di qualche fama nata all’ombra di Castel sant’Angelo, ad eccezione che Plautilla Bricci che comunque erudita non era.
Rosaura, pur anticipando molte delle istanze femminili ancora adesso oggetto di dibattito, rimane una figura settecentesca
Osservava sempre il ventenne all’intervallo che Rosaura, ricca e molto amata dal padre Pantalone, avrebbe potuto comunque lasciare il marito fedifrago; il padre, saputo che il genero umilia la figlia in mille modi e in ogni occasione, le propone di lasciarlo e di trasferirsi con lui a Roma, dove ha negozi e commerci, e che alla sua morte erediterà tutto e “sarà una regina”. E’ quello che si domandava anche Moderata Fonte nel suo trattato, perché le donne acconsentissero a “restare schiave volontarie” dei mariti fino alla morte quando avevano non di rado mezzi per prendere la porta, e che si è domandato anche Sangati quando ha messo mano al testo semi-dimenticato, che dovrebbe essere ripreso presto in altri teatri (l’ultima regia importante, firmata Giuseppe Patroni Griffi, risale ai primi anni Novanta, Rosaura era interpretata da Anna Maria Guarnieri, mentre oggi da Camilla Semino Favro in abito castigato e occhiali), giungendo all’unica conclusione possibile, e cioè che la Rosaura del Goldoni, pur anticipando molte delle istanze femminili ancora adesso oggetto di dibattito in molte aree geografiche mondiali, a partire dall’autodeterminazione, e pur essendo stata concepita in uno stato di diritto piuttosto evoluto, rimane una figura settecentesca, una borghese che, pur venduta dal padre in cambio di un titolo e come il padre stesso riconosce, ha migliorato il proprio status e non intende rinunciarvi, e d’altronde quante donne vediamo ancora oggi nella stessa condizione, qualcuno citerebbe Melania Trump. Rosaura vuole salvare tutto, matrimonio, posizione e dignità e, come dice Sangati, convinto che la sua protagonista legga Shakespeare, per non soccombere, si affida alle proprie letture di teatro come strumento di sopravvivenza.
Nel corso della commedia, questa donna che Goldoni aveva intitolato “La moglie amorosa” prima di rendersi conto che l’amore in questa storia c’entra zero, perfino nei rapporti fra Ottavio e Beatrice è una questione di potere e di supremazia, diventa interprete, drammaturga e perfino regista della propria vita. Sa che nessun altro dei suoi interlocutori ha mai aperto un libro (“Sono forse poche le donne che sanno?”, chiede al laido Florindo, che nella Commedia dell’Arte riveste solitamente i panni del suo promesso, in questo caso dello scroccone, e lui le risponde sicuro: “Saranno moltissime, ma io non le conosco”). Il trionfo di Rosaura, che non è affatto femminista, come ha scritto qualcuno, ha comunque un prezzo elevatissimo: con la ragione vince contro tutti, ma finisce per mettere in gabbia anche se stessa e le proprie emozioni, a rinchiudersi nella “Casa di bambola” dalla quale non uscirà per altri centovent’anni e in moltissimi casi non è uscita nemmeno adesso. Per questo, con ogni probabilità, “La moglie saggia” non si mette in scena quasi mai: perché ricorda a troppi gli infiniti compromessi coniugali dai quali nessuno può uscire con una risata o una battuta greve di Arlecchino.
