l'intervento
Perché l'uomo occidentale si è ridotto a odiare se stesso
In discussione c’è la legittimità dell’individuo nella sua esistenza concreta. Secondo gli adepti dell’ecologia profonda, è l’animale più pericoloso, un predatore universale, molto peggio degli altri esseri viventi
Pubblichiamo la lectio magistralis – “¿Porque el hombre occidental se odia a sí mismo?” – che Rémi Brague ha tenuto lo scorso 18 novembre presso la Fundación Neos di Madrid. Insieme a Brague sono intervenuti don Jesús Higueras, parroco e teologo e Juan Miguel Palacios, filosofo ed esperto in antropologia. Rémi Brague, nato a Parigi nel 1947, è professore emerito di Filosofia medievale e araba presso l’Università Panthéon-Sorbonne (Parigi I) e professore di Filosofia delle religioni europee presso l’Università Ludwig-Maximilian di Monaco. Nel 2009 è stato nominato membro dell’Académie catholique de France e fa parte dell’Institut de France.
Nel 2012 è stato insignito del Premio Ratzinger per la teologia “perché a partire da una straordinaria conoscenza delle origini e della storia della fede cristiana, sa guardare in avanti per costruire sulle basi di questa medesima fede”. Tra i suoi libri tradotti in italiano, “Il futuro dell’occidente. Nel modello romano la salvezza dell’Europa” (Bompiani, 2005), “La saggezza del mondo. Storia dell’esperienza umana dell’universo” (Rubbettino, 2005), “Il Dio dei cristiani, l’unico Dio?” (Cortina, 2009), “Ancora nel cielo. L’infrastruttura metafisica” (Vita&Pensiero, 2012), “Contro il cristianismo e l’umanismo. Il perdono dell’occidente” (con Elisa Grimi, Cantagalli, 2015). Del 2024, per Gallimard, è “La Morale remise à sa place”.
L’amico Jaime mi ha proposto di fare un’analisi della crisi che il mondo occidentale sta attraversando ora. Un’analisi globale, poiché la crisi è globale. E’ difficile dire di no a un amico tanto stimato, ed è per questo che sono qui. Tuttavia, questo compito risulta troppo ambizioso per una creatura non angelica come me.
Sono un filosofo o, per meglio dire, un storico delle idee o un filosofo travestito da storico delle idee o, forse, il contrario. Per questo motivo, è chiaro che ho una tendenza a sovrastimare la dimensione filosoficamente rilevante dei fatti e a escludere dalla sfera i fattori economici, politici, ecc. della situazione presente, che non rientrano nella mia competenza.
Nonostante questa deformazione professionale da filosofo, non citerò i nomi di intellettuali ritenuti responsabili e addirittura colpevoli della situazione attuale. C’è chi crede che tutto sia accaduto a causa di Foucault, Derrida, Bourdieu o non so chi. Non nego gli aspetti equivoci delle loro opere, ma si potrebbe dire lo stesso di quanto scrisse Nicolás Gómez Dávila riguardo alla Rivoluzione francese: per capire le sue origini intellettuali, risulta meno utile conoscere grandi pensatori come Voltaire, Rousseau o Diderot, che studiare personaggi di minore importanza, oggi quasi dimenticati.
Si tratta di un’atmosfera generale, dell’aria che respiriamo. Ora, è estremamente difficile descrivere una cosa invisibile e impalpabile come l’aria.
Sarebbe impossibile fare, come in un’analisi spettrale, un elenco completo di tutto ciò che va al contrario nel mondo di oggi. Tuttavia, è necessario osare un’enumerazione di alcuni tratti salienti. Lo farò in cinque passi, partendo da fenomeni locali e recenti fino a fenomeni di livello più alto e di lungo periodo.
a) Si parla molto dell’immigrazione e dei problemi che essa comporta, di tanto in tanto della criminalità, e almeno della difficoltà di integrazione di persone che provengono da culture in cui il codice di comportamento non è quello in vigore in Europa. La difficoltà sta nel non confondere un effetto con una causa.
L’immigrazione è una conseguenza del differenziale demografico tra le diverse zone della Terra, cioè dell’inverno demografico che colpisce tutti i paesi industrializzati del cosiddetto “nord”. Potrebbe essere irreparabile. Si possono cambiare leggi e riformare istituzioni, si può abbattere un sistema sociale e politico con una rivoluzione radicale. D’altra parte, non si possono far uscire bambini da un cappello a cilindro. E’ ora che le nostre élite comprendano che i bambini non si trovano nei cavoli e che la cicogna che porta i neonati ha lo stesso modo di esistenza del topolino Pérez.
b) Un altro fenomeno importante: la storia dell’occidente viene percepita esclusivamente come una serie di crimini. Per esempio, trentadue anni fa, la celebrazione della scoperta dell’America è diventata un esercizio di autoinflizione. Concretamente, questa vergogna storica si traduce in un’ondata di distruzioni. Vengono abbattute statue di personaggi che hanno contribuito al traffico di schiavi o, come Cecil Rhodes, alla colonizzazione. Sono state abbattute anche statue di militanti per l’abolizione della schiavitù, per esempio il francese alsaziano Victor Schoelcher, artefice della legge che l’ha abolita nel 1848, perché aveva la sfortuna di essere di pelle bianca.
c) Si percepisce anche nelle élite occidentali un odio verso il cristianesimo. Non mi riferisco solo a un fenomeno passivo come la disaffezione verso la pratica religiosa, ma piuttosto a un desiderio positivo di estinguere la Chiesa e la religione, in particolare quella cattolica. In Francia, diverse chiese sono state distrutte; alcune sono state bruciate. Hanno decapitato un sacerdote. Quando i presunti umoristi e i giornalisti si burlano della religione, il bersaglio principale è il cristianesimo.
d) La religione costituisce un caso particolare tra le istituzioni sociali. Una scuola sociologica influente considera ogni istituzione come una mera costruzione, senza alcuna base nella natura umana, una natura che dicono non esista, che sia un mito. Di conseguenza, tutto può essere “decostruito”, come si dice oggi. Da quelle cattedre accademiche di sociologia questa idea si è diffusa fino alla coscienza popolare. E ha lasciato da parte le strutture politiche o economiche per invadere le dimensioni più profonde dell’esistenza sociale come la famiglia e dell’esistenza umana come il corpo con la sua divisione sessuale.
e) C’è un ultimo gradino in questa salita verso fenomeni di maggiore ampiezza, una salita che è al contempo una discesa verso il nulla. Viene messa in discussione la legittimità dell’uomo nella sua esistenza concreta. Secondo gli adepti dell’ecologia profonda, l’uomo è l’animale più pericoloso, un predatore universale, molto peggio degli altri esseri viventi. Le fiere restano nel loro ambiente ecologico. L’uomo invade l’intero pianeta e lo sottomette. Sarebbe meglio che l’uomo se ne andasse, che il pianeta si liberasse di quel parassita che lo macchia. Sarebbe più bello il pianeta senza uomini, diceva già Flaubert in una sua opera giovanile. Si potrebbe chiedere: per quale spettatore? Chi godrebbe della bellezza di una Terra senza uomini?
Qualunque cosa sia, questi fenomeni hanno qualcosa in comune? A mio parere, tutti questi fenomeni, pur essendo diversi, sono convergenti e hanno un unico punto focale: l’odio verso se stessi. Altri hanno già sottolineato la presenza di tale atteggiamento nelle classi superiori dell’occidente di oggi, nell’uomo postmoderno.
L’esempio chiave potrebbe essere l’odio verso il cristianesimo, a cui ho appena accennato. C’è tale odio proprio perché siamo di eredità cristiana. Diceva il filosofo italiano Benedetto Croce, un laico, in un celebre articolo del 1943 il cui titolo era una domanda retorica: “Perché non possiamo non dirci cristiani”. Chi si odia odia ciò che lo caratterizza più profondamente. L’odio verso il cristianesimo è la prova dell’importanza decisiva del cristianesimo nella storia della cultura europea.
Ora, si potrebbe obiettare: No, che cosa stai dicendo? Non si odia l’uomo occidentale di oggi. Al contrario, lo si ama, anzi lo si ama troppo. Sembrerebbe che l’individualismo che oggi presiede la nostra società ci allontani dall’odio verso se stessi dell’uomo postmoderno. Ma non è così. Se ne parla molto di questo individualismo da quando Tocqueville ha introdotto questa nozione nel discorso politico. Si sente spesso dire che gioca un ruolo decisivo nella situazione che viviamo, che si rimprovera all’individualismo il declino delle nostre società, ecc. A mio avviso, sebbene ci sia un pizzico di verità, l’interpretazione dell’individualismo sfiora solo la superficie della questione.
L’uomo moderno ama se stesso? Amare qualcosa significa volere che l’oggetto dell’amore sia, esista, sia quello che è, continui ad essere quello che è. Cioè, amare ciò che fa sì che essa esista.
Preferisco dire che l’uomo moderno si stima, si interessa a se stesso. Può darsi, di tanto in tanto, che preferisca una disgrazia che lo rende interessante ai suoi occhi piuttosto che una felicità che viene da fuori.
L’individuo è un’astrazione, diceva già Auguste Comte. Astrarre significa togliere tutto ciò che non appartiene al nucleo centrale di una realtà. Ciò che chiamiamo individuo è tutto ciò che resta dopo che sono state tolte tutte le determinazioni che provengono dall’esterno.
Ha l’uomo postmoderno il sogno impossibile di una autodeterminazione radicale di sé e per sé, di un’anima che sorvola la realtà e si posa sul corpo che sceglie, sull’epoca che decide, sul luogo che preferisce, ecc. Per questo, il soggetto e l’oggetto di tale amore sono una punta fine dell’individualità in cui non c’è esistenza concreta, cioè carnale e storica. Ama ciò che vorrebbe che fosse, odia ciò che è, tutto ciò che fa, ciò che è.
L’“odio verso sé” dell’uomo occidentale di oggi è un odio indiretto o, per meglio dire, per sostituzione. L’uomo dell’élite occidentale odia tutto ciò che viene da fuori e che lo determina. Ci sono determinazioni culturali come i genitori e l’ambiente sociale, il paese con la sua lingua, la sua cultura e la sua storia, ecc. Ci sono anche determinazioni naturali come il sesso o l’età, fino al fatto fondamentale di appartenere alla specie umana.
Per quanto mi riguarda, vorrei aggiungere una piccola osservazione, cioè specificare il tipo di odio di cui si tratta. Possiamo odiare diversi tipi di cose, diversi gruppi di persone, e soprattutto per diverse cause. Lo stesso si può dire dell’odio verso se stessi. Anch’esso ha diverse forme. Possiamo odiare perché siamo gelosi, indignati o invidiosi. A mio parere, l’odio verso se stessi che si trova nell’uomo occidentale di oggi è una manifestazione di invidia.
Quindi, è opportuno avanzare qualche parola sull’invidia. Troviamo questo vizio nelle enumerazioni proposte dai filosofi dell’antichità classica. Aristotele lo conosce, lo chiama phthonos e descrive i suoi effetti nella sua “Retorica”. Lo troviamo anche nelle liste di peccati di san Paolo (Romani, 1, 29; Galati, 5, 21). San Tommaso d’Aquino lo conosce e lo tratta tra i sette peccati capitali.
Ci sono peccati che procurano piacere, e per questo pecchiamo. Mangiare abbondantemente per gola è peccato, ma procura piacere. Andare a letto con la donna del vicino è peccato, è adulterio, ma procura piacere. L’uomo cerca il piacere per un desiderio naturale. Può succedere che si sbagli sull’origine, sull’intensità, sulla qualità, sulla durata del piacere. E questo accade molto spesso. Ma il suo oggetto è sempre il piacere. Per questo pecchiamo, perché preferiamo il piacere immediato alle conseguenze sgradevoli delle nostre azioni, conseguenze che si svilupperanno nel lungo periodo.
Diciamo che un peccato, tra virgolette, “normale”, se si può dire, un peccato come Dio comanda, una trasgressione della legge morale con tutte le caratteristiche del caso, procura piacere.
D’altra parte, ci sono peccati che non procurano piacere, che si possono anche definire, classicamente, come tristezze. L’invidia non procura piacere. Anzi: Aristotele la definisce come “un dolore perturbante e che riguarda il successo, ma non di chi non lo merita, bensì di chi è nostro pari o simile”. Ci sono altre passioni che implicano tristezza, come la pietà, la gelosia, l’indignazione. Nella pietà e nell’indignazione proviamo tristezza a causa di un’ingiustizia: nella pietà, mi dispiace che un male abbia colpito una persona che non lo meritava; nell’indignazione, mi arrabbia che una persona possa aver goduto di un bene che non meritava.
Nei gelosi, sono triste perché qualcun altro ha preso qualcosa che possedevo o che avrei potuto possedere: un francobollo raro che avrei potuto aggiungere alla mia collezione, una posizione dirigente in un’impresa, o una fidanzata. Nell’invidia, non mi ha tolto nulla, la persona che invidio non mi ha privato di nulla. Per questo, l’invidia è un peccato astratto, un peccato per spiriti puri, cioè un peccato diabolico.
Lasciamo per un attimo da parte la psicologia dell’invidia e concentriamoci sulla visione del mondo che condivide molta gente nell’occidente di oggi. L’uomo della strada attribuisce tutto alla “Evoluzione”. Questa evoluzione non la immagina come un processo, come qualcosa che si sviluppa, ma piuttosto come un soggetto attivo, che fa qualcosa, che produce, per esempio, esseri viventi. Ora, dire che l’Evoluzione ha prodotto le specie viventi o le facoltà in esse ha poco senso, così come dire che la storia ha prodotto Napoleone. Ciò che intendiamo dire quando invochiamo l’Evoluzione è che gli esseri viventi sono il risultato di un concorso fortuito di forze cieche, cioè del caso e della necessità.
Ci sono molte cose da dire sul valore filosofico di questa teoria. Comunque sia, c’è molta gente nell’occidente di oggi che immagina che la propria vita sia il prodotto di un caso, “un dono immeritato e fortuito”, come diceva Puškin. Questa visione popolare del mondo è stata espressa in uno stile scientifico da un ricercatore molto serio, il biologo francese Jacques Monod, che vinse il premio Nobel nel 1965. Secondo lui, l’apparizione della vita, la sua evoluzione da forme primitive fino alla specie umana, tutto questo sarebbe il risultato del caso e della necessità. Questo è il titolo del libro che lo rese celebre nel 1970.
Monod scrive, riassumendo il suo pensiero:
“L’Universo non era pregno di vita, né la biosfera dell’uomo. Il nostro numero è uscito al gioco del Montecarlo. Cosa c’è di strano se, proprio come chi ha appena vinto mille milioni, sentiamo la stranezza (étrangeté) della nostra condizione?”
Ora, vale la pena riflettere su questa frase: quale sarebbe il nostro comportamento nei confronti di qualcuno che ha appena vinto mille milioni alla lotteria? Monod suppone che sia sorpresa o curiosità. Potrebbe essere che il dotto investigatore sia un po’ ingenuo. Temo che la nostra reazione sarebbe di natura negativa. Ci domanderemmo con sospetto: Perché lui e non io?
Se il successo che è accaduto è il risultato del caso e nient’altro, la nostra reazione spontanea è l’invidia. Allora, se è vero che la specie umana è il risultato del caso, e basta, dobbiamo osare pensare al fenomeno paradossale di una invidia verso se stessi. Questa invidia verso se stessi comporta l’odio verso se stessi, il desiderio che il genere umano si estingua, come desiderano i militanti della “ecologia profonda” (o radicale).
Può essere, per dirlo con un sorriso – un sorriso da coniglio – che il colore verde di cui si vantano questi militanti non sia solo il colore dell’erba, ma piuttosto il colore dell’invidia.
Ho appena detto, e ho già detto, che l’invidia è un peccato diabolico. Questa parola la prendo sul serio. A questo punto, è necessario che io faccia un breve trattato di demonologia. Perciò, dobbiamo dimenticare tutto il cinema che si è fatto sul diavolo, da Dante fino a Hollywood e passando per Milton. Satana non è un ribelle che vuole prendere il posto di Dio. Questa falsa immagine di Satana proviene da un cosiddetto “prometeismo” moderno, che peraltro non ha nulla a che vedere con il vero Prometeo, quello della mitologia greca, di Esiodo e di Eschilo. E nemmeno ha a che fare con la Bibbia l’immagine comune di Satana.
L’immagine di Satana che si legge nella Bibbia è completamente diversa. All’inizio del libro di Giobbe, Satana è l’angelo cinico che dubita della rettitudine morale di Giobbe e la attribuisce a motivi vili: la sua prosperità economica, la sua felicità familiare, la salute del suo corpo, ecc. (Giobbe, 1, 10). Nel quarto Vangelo, è omicida (Giovanni, 8, 44). Nell’Apocalisse viene descritto come “l’accusatore dei nostri fratelli” (12, 10).
Satana non è nemico di Dio, ma piuttosto dell’uomo. Crede in Dio, lo dice l’Epistola di Giacomo (2, 19). Ma diffida dell’uomo. Per questo c’è un po’ di verità in ciò che diceva il filosofo tedesco Fichte: l’oggetto legittimo della fede non è Dio, poiché Egli è evidente per la coscienza morale. L’oggetto adeguato della fede è l’uomo, la sua capacità di obbedire alla legge morale, una fede che dobbiamo sostenere nonostante ciò che la storia ci insegna. Quello che vuole Satana è che l’uomo dubiti del proprio valore, della grandezza e della nobiltà del suo destino, della misericordia di Dio che potrebbe permettergli di recuperare la sua dignità perduta. Satana lo fa proprio per invidia.
Il ruolo malefico dell’invidia verso sé stessi può essere scoperto in relazione alla storia, ossia non a ciò che ha fatto la natura, ma piuttosto a ciò che ha fatto e continua a fare l’uomo. E qui, dopo aver trattato l’invidia verso sé stessi dell’uomo come specie, ritroviamo di nuovo l’odio verso sé stessi in un tipo particolare di uomo, quello che siamo noi. Si lamenta la dominazione dell’uomo occidentale, dell’uomo bianco e soprattutto dell’uomo maschio, ecc.
E è vero che nel corso della storia quest’uomo ha commesso sciocchezze, errori, crimini. Ha fatto ciò che fanno tutti i figli di Adamo dopo il peccato originale ogni volta che detengono qualche potere: far sentire il loro potere su chi è più debole, che deve sottomettersi, come riconoscono gli Ateniesi in Tucidide. Non si conoscono esempi di un potere superiore che si sia limitato.
E’ chiaro che l’occidente ha fatto più danni al mondo rispetto alle altre culture. Perché? Forse era malvagio? Può darsi, ma soprattutto perché era potente. Mi permettano di riprodurre qui una favola o parabola che scrissi tempo fa: L’elefante e il topo nel magazzino di porcellana. Entrano un elefante santo e un topo malvagio in un magazzino di porcellana. Chi farà più danno? Ovviamente l’elefante, a causa della sua enorme stazza, nonostante le sue buone intenzioni, e non il topo, nonostante la sua intenzione di fare tutto a pezzi. Ora, nella storia reale, l’elefante europeo non era santo, ma una persona normale, un peccatore come noi, solo più grande e più forte; e i topi indiani, cinesi, africani, islamici, ecc. non erano mostri, ma persone normali, peccatori come tutti, ma molto più piccoli e deboli.
L’occidente deve chiedere perdono e sperare di riceverlo. Sarebbe giusto, per inciso, che lo facessero anche le altre culture che si reputano innocenti. In tutto l’occidente vengono abbattute le statue di uomini che si sono guadagnati un posto nella storia come conquistatori o colonizzatori. Si può prendere come esempio Tamerlano. Alla fine del XIV secolo, questo conquistatore di origine turco-mongola, che si autoproclamava “la spada dell’islam”, cercò di ricostruire l’impero di suo zio, Gengis Khan. Fece uccidere un numero di persone che, secondo gli storici, varia da un milione a diciassette milioni. Ora, si possono vedere tre statue di questo personaggio, alte da sei a sette metri, in varie città del suo paese, l’Uzbekistan: nel luogo di nascita di Tamerlano, nella capitale del suo potere e anche nella capitale odierna. E’ interessante notare che il governo dell’Uzbekistan ha fatto erigere queste statue recentemente per sostituire quelle di Lenin—un altro benefattore dell’umanità. Mentre le statue di Lenin diventano sempre più rare, nessuno menziona la possibilità di eliminare quelle di Tamerlano.
I successi dell’occidente, e in particolare la sua conquista del mondo, sembrano insopportabili perché si figurano come il prodotto del caso. Tuttavia, l’Europa è riuscita a uscire da sé stessa, a scoprire gli altri continenti, a sottomettere e sfruttare i popoli che vi abitavano. Queste imprese hanno portato con sé crimini, come il rovescio di una medaglia. L’Europa ha potuto realizzare tutto ciò perché era più avanzata nel campo della scienza e della tecnica, soprattutto nella navigazione.
E tutto questo progresso non era il risultato del caso, ma di un lavoro su sé stessa, di uno spirito di innovazione tecnica e di curiosità intellettuale. Questi fattori hanno reso possibile il decollo economico e demografico dell’Europa a partire dal XI secolo, di cui una delle conseguenze fu l’espansione oltremare dei paesi europei.
Anche qui dobbiamo stare attenti a non confondere effetti con cause, o viceversa, cause con effetti. Per esempio, è vero che lo sfruttamento delle ricchezze minerarie delle colonie e del lavoro degli indigeni contribuì all’arricchimento dei paesi colonizzatori—o per meglio dire, di alcuni gruppi in essi. Ma il costo globale per i paesi era negativo, come hanno mostrato vari storici dell’economia.
Per quanto riguarda i paesi che furono sottomessi e colonizzati, quella situazione era la conseguenza di uno stato di debolezza che aveva cause interne. Come affermava lo storico algerino Malek Bennabi, può essere colonizzato solo un paese che è, con una parola che ha inventato, “colonizzabile”.
Qui abbiamo, se non mi sbaglio, l’origine dell’odio verso sé stessi dell’uomo occidentale: l’invidia verso sé stesso, di essere uomo, di essere bianco, di essere maschio, ecc.
L’invidia, lo ripeto, costituisce una forma di odio, e l’odio cerca la distruzione di ciò che odia. Ciò che si potrebbe chiamare “auto-invidia” porta con sé il desiderio di autodistruzione.
L’autodistruzione costituisce la forma più perfetta della autodeterminazione. Lo stesso progetto di autodeterminazione dell’uomo per sé stesso porta con sé il desiderio di suicidio. Il suicidio, lo dico con una amara ironia, ha grandi vantaggi: è facile, è veloce, è economico, il risultato che ottiene è totale e definitivo.
Chiaro che suicidarsi deve essere sgradevole. O, perlomeno, così suppongo. Il fatto che chi si suicida debba sopportare le conseguenze del suo atto porta con sé il carattere paradossale del giudizio morale che possiamo fare sul suicidio: un’azione che è al tempo stesso condannabile e rispettabile.
Ho appena detto che l’odio verso sé stessi dell’uomo occidentale non ha come oggetto l’individuo nel suo nucleo fondamentale, ma piuttosto tutto ciò che lo determina dall’esterno.
Ora, basta sostituire il suicidio dell’individuo con la distruzione del paese in cui vive, della civiltà che gli ha portato i suoi tesori morali e culturali o, in un orizzonte lontano, l’estinzione della specie umana. L’individuo può contribuire a queste distruzioni del paese, della cultura, dell’umanità. Lo fa con le idee che diffonde e con gli atti che compie o che rifiuta di compiere. Lo fa mentre si risparmia il dolore di uccidersi. E, inoltre, continua a godere dei beni della pace sociale nel suo paese, delle ricchezze della cultura che ha ereditato, e, sotto tutto ciò, semplicemente della sua appartenenza alla specie umana.
Ora, il suicidio costituisce la realizzazione concreta di una dialettica autodistruttiva che l’ateismo porta con sé. Secondo la visione del mondo dell’Antichità classica, l’uomo era il culmine della Natura, l’essere terrestre in cui la Natura aveva realizzato le sue intenzioni ultime, ed è quindi l’essere supremo naturale. Secondo l’antropologia biblica, l’uomo fu creato a immagine di Dio (Genesi, 1, 26). I Padri della Chiesa aggiunsero: creato con la libertà che è l’immagine divina, che non può essere perduta, e con il compito di compiere la sua missione: recuperare la somiglianza che il peccato di Adamo ha fatto perdere.
Senza un punto di riferimento esterno, l’uomo non può dire di valere più di uno scoiattolo o di una lumaca, o pretendere di meritare una dignità superiore, ecc.
Abbiamo attraversato i livelli successivi dell’odio verso sé stessi dell’uomo occidentale. Da certi ambienti influenti, i mezzi di comunicazione lo diffondono in ampie fasce dei popoli. La sua conseguenza è che questi popoli sono sul punto di perdere, o almeno rischiano di perdere, tutta la volontà di difendersi dalle sfide che li affrontano dall’esterno e dall’interno. Perché dovrebbe valerne la pena? Se il nostro modo di vivere, e perfino tutta la vita umana, è priva di legittimità, radicalmente viziosa, l’unica misura logica da prendere è lasciarla scomparire, o darle una spinta verso la discarica.
Questo odio, mi permetto di descriverlo un po’ più precisamente come il fenomeno paradossale dell’invidia verso sé stessi. Si declina in una serie di “perché”: Perché tutti i fattori che mi fanno essere quello che sono piuttosto che altri, che avrei scelto io stesso? Perché l’occidente prima di altre culture? Perché l’uomo prima di altri esseri viventi? E, all’orizzonte ultimo della domanda: Perché l’Essere piuttosto che il Nulla? Ai filosofi è costato poco lavoro identificare in questa formula una versione mordacemente ironica della questione fondamentale della metafisica secondo Leibniz...
Ora, la radice ultima dell’invidia verso sé stessi si trova in una visione del mondo totale. E’ la visione secondo la quale tutti i fattori che mi fanno essere ciò che sono sono il prodotto fortuito di cause cieche casualmente riunite, e nient’altro. Una visione che prescinde dal riferimento a una Ragione creatrice e benevola - il Logos divino del Prologo del Vangelo di Giovanni - produce necessariamente l’invidia verso sé stessi, l’odio verso sé stessi e il desiderio di autolesionismo.
Molti pensatori hanno già sottolineato che la supposta “morte di Dio” ha come conseguenza logica inevitabile la morte dell’uomo. E non una morte metaforica, capace solo di suscitare un piacevole brivido negli intellettuali chic, ma, a lungo termine, un’estinzione molto concreta.
Se possiamo uscire indenni da questo pericolo mortale, dobbiamo recuperare una visione positiva di ciò che ci costituisce e accettarlo con gratitudine, cioè recuperare la fede in un amore provvidenziale, la fede nella creazione. La fede non è una sovrastruttura nebulosa o un articolo di lusso, ma il fondamento della nostra esistenza. La cosa buona nella situazione attuale è che ci offre l’opportunità di riscoprire l’urgenza vitale della fede. Lo stato attuale della civiltà ci ha posto, molto concretamente, nella situazione che supponeva la fine del Deuteronomio: “Ho posto davanti a te la vita e la morte, a te spetta scegliere la vita” (30, 19).