La recensione
Op Oloop, il Dedalus di Buenos Aires
In libreria, per Ago edizioni, il romanzo di Filloy, storia dello statistico finlandese trapiantato nella Buenos Aires degli anni Venti e ossesionato dal calcolo
Op Oloop è un nome che resta in bocca, come «le liquide lettere delle parole» che impregnano, in “Un ritratto dell’artista da giovane” di Joyce, la trasformazione dell’immagine di Emma «nei misteriosi modi della vita spirituale». Una erotica mentale, quella di Stephen Dedalus, molto simile a quanto Op Oloop realizza attraverso la sua «telestesia» amorosa con Franziska: la prima delle sottotrame del romanzo eponimo, dato alle stampe nel 1934 da Juan Filloy, ed ora brillantemente tradotto per le edizioni Ago da Giulia Di Filippo. A tutta prima si sarebbe invero tentati di definirlo una pochade, se non fosse che il protagonista – uno statistico finlandese trapiantato nella Buenos Aires degli anni Venti del secolo scorso – riveli presto, dietro la sua licenziosità psichedelica, una statura tragica, solitaria, disperata.
A dispetto del milieu rutilante e frenetico che lo circonda – «un instabile, tragico, torbido luogo di frattura e lacerazione», definirà tempo dopo Ernesto Sábato, in “Sopra eroi e tombe”, l’atmosfera porteña di quegli anni – Op Oloop sembra credere che ogni cosa debba essere determinata da circostanze costrittive e da impulsi precisi. Non ignora tuttavia che il fine d’ogni attenzione è una disattenzione e che al fondo d’ogni sensibilità risiede l’indifferenza. Anche per questo la cura mirabile ch’egli profonde nell’organizzare il proprio pranzo di fidanzamento al relais dell’hotel Plaza non può che tendere ad una trascuratezza perfetta. Com’egli stesso ammette, il suo è un dandysmo intriso di pudicizia: un insieme di grazia, di civetteria e di rinuncia. Anzitutto alla propria personalità, destinata, nell’arco d’un’unica giornata, ad erodersi fino all’epilogo suicidario.
Non potrà dunque definirsi l’opera di Filloy una commedia a tratti hellzapoppin a tratti degli equivoci, benché qualche scena possa suggerirlo. Ma neppure una tragedia, che non conosce il gioco. Se mai, complice la sovrabbondanza di artifici retorici ed il plot aggrovigliato (secondo solo a quello del più tardo “Caterva”), la cui struttura produce il testo e al contempo l’innesto d’altri molteplici intrecci, “Ol Oloop” potrebbe dirsi epitome d’una nuova letteratura americana, affine – hanno proposto in momenti diversi Alfonso Reyes e Julio Cortázar – alla “letteratura potenziale” d’ambito francofono. La scrittura di “Ol Oloop” sembra però interessata solo in parte a rendersi un laboratorio di tropi e di incontrollate divagazioni narrative; essa soprattutto parrebbe voler permettere l’esercizio di ciò che Filloy stesso chiama una «pura eutrapelìa».
L’eutrapelìa, dopo essere stata per Aristotele e San Tommaso la virtù del giusto mezzo fra eccessi e difetti, diventa con Cervantes, secondo quanto si trae in particolare dalle “Novelle esemplari”, sinonimo del piacere suscitato da una giocondità capace di forare il discorso senza renderlo privo di senso. Conformandosi ai dettami di tale «honesto entretenimiento», Filloy inanella frasi la cui perfezione sintattica e lessicale si accompagna ad un tema erotico, se non pornografico, ma al tempo stesso egli schiva lo stereotipo, il luogo comune, con una inattesa «eironeia». In questo «passaggio incongruo» da una dimensione stilisticamente ineccepibile, consona e compita ad una dimensione trivialmente materialistica, provocatoria, eterologa – notava Roland Barthes – consiste ogni autentico «piacere del testo». Una dissociata fisiologia di registri linguistici che Filloy utilizza non soltanto per rendere possibile uno sfiguramento della lingua, ma anche, con un atto di trasposizione genuinamente modernista, per dare espressione alla stessa follia di Op Oloop: nevrotico psicoticamente lapsico, nella cui diligente voluttà si mente una irremeabile pulsione di morte, l’anelito ad «un tempo assassinato e reso consustanziale al tatto».