il colloquio
"Annoiarsi da piccoli è fondamentale, ma le nuove generazioni non sanno cosa significa". Intervista a Charlotte Rampling
A tu per tu con l’iconica attrice inglese, ospite d’onore della 22esima edizione dell’Ischia Film Festival, dove presenterà in anteprima "Juniper, un bicchiere di gin", nelle sale italiane dal prossimo autunno
Ischia - Il colore dei suoi occhi, il portamento, i gesti, la gentilezza e una professionalità che appartiene solo ai grandi che riescono a dare il giusto valore alle cose adattandosi alle situazioni, anche alle più critiche. E poi la sua voce pudicamente impudica, un mix, come i personaggi da lei interpretati, tra innocenza e corruzione, eleganza e sessualità, candore e scalpore. Il nostro arrivo sull’isola per la 22esima edizione dell’Ischia Film Festival ben diretto da Michelangelo Messina è “movimentato” e lo ricorderemo a lungo, ma a compensare il tutto ci ha pensato Charlotte Rampling. L’attrice inglese ci aspetta al bar all’ultimo piano del Castello Aragonese, la vista da lassù è unica, lei pure. Sorseggia uno Spritz, si sistema la ciocca di capelli color argento e tra una risposta e un’altra lascia sempre passare qualche secondo. “Mi piace pensare prima di iniziare a parlare. Le parole sono importanti, nel bene come nel male. Oggi c’è troppa gente che apre bocca e dice la sua su cose su cui non è competente e si arrabbia se non viene ascoltata. Denunciano il tutto sui social, ma l’assurdità è che lo fanno per cose e motivi di poco valore. Non ho i social, non perché io sia snob, come dicono, ma perché non mi interessano. Quando una cosa non la so, sto zitta. Quando ci credo, poi, non mi ferma nessuno”.
Quali sono allora i motivi che la fanno arrabbiare veramente? Le chiediamo. E lei, senza scomporsi: “Non ho alcun dubbio: la situazione che stiamo vivendo in questo mondo, devastato da ingiustizie, guerre, disastri ambientali e altre amenità. C’è poi un ritorno del fascismo in tante sue forme, è più che mai evidente. Penso a voi, qui in Italia, o alle recenti elezioni in Francia, come altrove. La guerra? È uno spreco totale, non mi riferisco solo alle vittime, è una follia. La soluzione non c’è, anche se mi piacerebbe tanto che ci fosse. Il ‘cosa fare’ non può avere una sola risposta, è troppo una domanda etica e filosofica insieme. Nel mio piccolo, posso solo contestarlo, prendere una posizione, parlarne, ma è un problema collettivo ed è la stessa collettività che, insieme, deve fare qualcosa”.
Come ha fatto a restare libera? aggiungiamo.
“Dicendo di no, è più facile di quello che sembra. L’ho fatto sempre, anche in passato quando non avevo soldi e non ero conosciuta. È per me più difficile dire di sì, perché implica spesso un legame con la vita e con gli altri che non sempre si riesce a gestire al meglio. Altra cosa: sono rimasta libera rimanendo me stessa. Lei penserà che sia una pazza ad affermarlo, perché è difficile restare sé stessi quando si fa un lavoro come il mio. Noi artisti in genere, noi attori in particolare, ci nutriamo di ego e di noi stessi, eppure, l’unica cosa che ci da’ davvero un equilibrio e ci salva è restare noi stessi, insieme ad avere o ad aver avuto una famiglia, qualunque essa sia”.
La sua come è stata? Aggiungiamo. “Una famiglia normale, ma presente. Papà era un militare e per via del suo lavoro, ci spostavamo da un posto a un altro ogni due anni. Dalla nostra casetta nella periferia londinese a Gibilterra, Fontainebleau e in molti altri posti, una vita in movimento che all’epoca era piacevole. In periferia non c’era nulla, niente di interessante, solo l’ordinario. Ciò mi ha dato la forza di cambiare e di scegliere quello che volevo fare. Mi annoiavo, ma è fondamentale da piccoli annoiarsi, per trovare e sviluppare la loro creatività. In una società come la nostra del tutto e subito, le nuove generazioni non sanno neanche cosa sia la noia. Fu mia sorella ad aprirmi la strada, perché andò per prima a Londra. Iniziai con la moda, ma con piccole cose, mica era come oggi. Da lì, il cinema nel 1965 con Non tutti ce l’hanno di Richard Lester e gli altri a seguire”. Ovvero gli iconici La caduta degli Dei (1968) di Luchino Visconti, Il portiere di notte (1974) di Liliana Cavani e Stardust Memories di Woody Allen eccetera. “Ho avuto sin da subito un certo feeling con l’essere attrice, nessuno mi ha insegnato nulla, sono stata un’ autodidatta in tutto”.
L’attrice inglese è sull’isola per presentare in anteprima italiana Juniper, un bicchiere di gin, nelle sale italiane dal prossimo autunno. Interpreta Ruth, una donna malata costretta sulla sedia a rotelle e consapevole di morire. “Non mi fa paura il tempo che passa, bisogna accettarlo come accettare che il nostro corpo si modifichi naturalmente. Mi meraviglia che io sia ancora qui a parlare con lei, ma penso che che ci siano cose fondamentali che mi hanno fatta arrivare dove sono oggi. Non parlo soltanto del cinema, la mia professione, ma della vita stessa. Vivere e saperlo fare non è da tutti”.
Il giorno prima del nostro incontro ha visitato la Colombaia, la storica villa che Luchino Visconti aveva sull’isola. “Luchino mi stimava molto, la prima volta che mi fece un provino disse che ero abitata da molti mondi. Riuscì a tirare fuori quello vero. Mi invitò tantissime volte qui a Ischia, ma non venni mai. Era il 1969 e stavamo girando La caduta degli Dei a Cinecittà. Ho sentito il bisogno di farlo, perché sapevo che allora mi ero persa qualcosa. Adesso mi sento in pace, perché ho colmato quel vuoto, è stata una maniera per accomiatarmi con lui e salutarlo, anche perché è lì che è sepolto. La cosa sconvolgente è vedere una bella casa fuori con un panorama mozzafiato e il suo interno completamente vuoto, perché hanno rubato tutto, persino le mattonelle. Ci sono delle foto per far vedere come era, ma la sensazione è abbastanza strana. La cosa importante è cercare di respirare in qualche modo quel mondo speciale che era il suo”. “Quel periodo – precisa l’attrice che vedremo presto in Last Breath di Costa Gavras e in Father, Mother, Sister e Brother di Jim Jarmusch (Lucky Red)- non mi manca affatto, ma ne ho un bel ricordo. Le cose vanno e vengono, quel che conta, almeno per me, è solo la consapevolezza di aver vissuto e conosciuto tutto questo”.
Juniper, un bicchiere di gin – come l’ha definito il regista esordiente Matthew J.Saville – “è un film sulla scelta che facciamo come esseri umani di vivere e di morire, su come gestiamo il dolore e ci abbracciamo alla vita”.
Lei ha paura della morte? le chiediamo prima di salutarci.
“Guardi, no, e le spiego perché senza esagerazioni. Ho vissuto il suicidio di mia sorella: aveva 23 anni e io 20, fu uno shock destabilizzante, le lascio immaginare. Bene, da allora, dopo quell’episodio, non avevo altra scelta se non vivere, perché a morire ci aveva già pensato lei. Il mio compito sarebbe quello stato di proteggere la mia famiglia distrutta da un avvenimento simile, una forma di sopravvivenza”. In Riparare i viventi, il suo best seller, l’autrice francese Maylis De Kerangal ha scritto che il vero problema è di chi resta. È così? Chi pensa a chi resta?
“Occorre resistere in maniera positiva a tutto quello che ci accade, trovare delle vie , fare altre cose alternative, trovare delle soluzioni che per me è continuare a vivere insieme agli altri, nella maniera più armonica possibile. Non ci si riesce? Pazienza, l’importante è provarci, perché sarà comunque qualcosa che ci farà del bene”.