Il duomo di Mantova - foto via Getty Images

L'evento

"Trame sonore": ottovolante di emozioni per il festival di classica più singolare

Alberto Mattioli

A Mantova una cinque giorni di musica da camera appena celebrati: ogni giorno una trentina di concerti di tutti i generi, dal Rinascimento alla contemporanea, tutto gratis. Unica regola: i musicisti classici non devono vestirsi da musicisti classici, quindi niente frac, smoking o altre gabbane, viva la libertà!

Non so se “Trame sonore” a Mantova, cinque giorni di musica da camera appena celebrati, sia il festival di classica più bello del mondo. Di certo, è il più singolare, divertente, allegro e alla fine commovente. Immaginate ogni giorno una trentina di concerti di tutti i generi, dal Rinascimento alla contemporanea, con l’unica regola di non averne, tranne forse due: durano al massimo 40 minuti e i musicisti classici non devono vestirsi da musicisti classici, quindi niente frac, smoking o altre gabbane, viva la libertà! Tutti suonano gratis, solo un rimborso spese, e gratis lavorano i volontari che fanno girare la gran macchina organizzativa con efficienza implacabile ma sorridente. E poi intorno c’è Mantova, e voi capite che la musica è bella ma, se l’ascolti al teatro Bibiena o nei palagi gonzagheschi, bella lo diventa ancora di più, tutto raccolto in poche centinaia di metri, unici mezzi di trasporto le due gambe o i due pedali, in questa Padania felix per una volta nemmeno funestata dalla tipica afa amazzonica, a parte un paio di nubifragi. E dunque, un continuo inesauribile incrociarsi e inseguirsi di violini e mostarde, agnoli e agnizioni, Mozart e Rubens, tortelli di zucca e masterclass del 94enne vispissimo pianista sommo Alfred Brendel, Sacri Vasi del Preziosissimo Sangue sotto i Mantegna in Sant’Andrea e una “trama” ad hoc per i cent’anni di Puccini, titolo che è tutto un programma, Puccini: love or hate? (confesso il conflitto d’interesse: una conversazione sull’argomento l’ho tenuta anch’io, ovviamente: “Vizi d’arte”).
 

È un ottovolante musicale e sentimentale, dove passi in due passi da sacre rarità di Heinrich Ignaz Biber inframmezzate da un mottetto di “J. C. Bach” (e tutti: sarà Johann Christian, uno dei molti figli, e invece era Johann Christoph, uno degli innumerevoli cugini) al Canzoniere su versi popolari toscani di Ermanno Wolf-Ferrari, edito ed eseguito da Gemma Bertagnolli con la divertita complicità di Antonio Ballista (per lui sono 88, il pianoforte è un elisir), da un meraviglioso Schwanengesang con la coppia Mark Padmore-Alexander Lonquich al K. 456 trascritto per quintetto d’archi (quelli dell’Orchestra da Camera di Mantova), solista un ottimo Luca Ciammarughi, poi anche con Blagoj Nacoski per i Folksongs di Britten. È una vertigine, l’insana celebrazione di una passione in cui perseverare è felicità, scambiandosi concerti ascoltati o ascoltandi come da bambini  le figurine: ce l’ho, ce l’ho, manca… Avanti con  Il combattimento di Tancredi e Clorinda con Antonio Greco e i complessi del Monteverdi Festival nella Sala dei Fiumi di Palazzo Ducale, forza con un insolito Puccio quartettistico nella Sala dei Cavalli di Palazzo Te, sotto con i concerti di mezzanotte nella Rotonda di San Lorenzo, dove scopri che le suite di Bach, quello vero, o il Fandango d’après Boccherini stanno curiosamente benissimo nel romanico, e che il violoncello di Giovanni Sollima è un’orchestra da solo. Gran finale domenica sera al Bibiena, dove suonò anche Mozart quattordicenne, con il Secondo concerto di Chopin, ancora Lonquich e l’Orchestra di Mantova, e il riso “alla pilota” (l’avrà assaggiato anche Amadé?), e noi tutti storditi e grati, stanchi e un po’ immalinconiti, ma come, anche quest’anno è finita? Ti prende già la nostalgia di quest’Italia colta e cosmopolita, allegra e testarda, che supplisce con il lavoro e la passione alle poche risorse, che è orgogliosissima del suo passato ma aperta al futuro, che crede ancora all’utopia ed è anche capace di realizzarla, consapevole che la bellezza forse salverà il mondo, ma di certo è l’unica strada per salvare sé stessa. L’Italia che vorremmo, insomma.

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