Sopravvissuti per 70 giorni. Il dies irae dei passeggeri precipitati con l'aereo sulle Ande

Francesca d'Aloja

13 ottobre 1972: un velivolo dall’Uruguay si schianta sulla cordigliera. La speranza per i superstiti sembra svanire, ma un padre e un figlio non si arrendono. Una storia vera che oggi è anche un film: “La società della neve”, candidato a due Oscar

Tanti anni fa, all’età in cui illudersi era ancora concesso, girai un film in Argentina. Era il mio primo film, e come esordio fu alquanto formidabile: produzione angloamericana, cast internazionale (il protagonista era Colin Firth), regista argentino (Martin Donovan) e la possibilità di trascorrere svariate settimane in un paese meraviglioso. 

 
Durante le riprese capitava di avere dei giorni liberi, e in una di queste pause, insieme ad alcuni attori del cast, ci imbarcammo per l’Uruguay, facilmente raggiungibile da Buenos Aires. Traghetto fino a Montevideo e da lì, con una macchina presa a noleggio, fino a Punta del Este, in cerca di spiagge e divertimento. Se racconto questo aneddoto è perché in quell’occasione (mi sono sempre piaciute le assurde opportunità che il cinema ti offre) venni casualmente a conoscenza di una storia che da allora mi è rimasta impressa nella mente, una storia incredibile e spaventosa, più volte rievocata da registi e scrittori che non hanno avuto bisogno di ricorrere ad artifici romanzeschi per rappresentarne la potenza, bastava riportare i crudi fatti. Mi riferisco al disastro aereo avvenuto sulla cordigliera delle Ande il 13 ottobre del 1972. 

 

Una squadra di giovani rugbisti uruguaiani si imbarca per raggiungere Santiago del Cile, con alcuni famigliari e l’equipaggio: 45 passeggeri

  
All’epoca dell’incidente ero una bambina e dunque nella mia memoria non era mai accaduto, ma quando, diciassette anni dopo, mi ritrovai a Punta del Este, ne conobbi i dettagli da una prospettiva del tutto insolita. 


Qualcuno suggerì a me e ai miei compagni di andare a visitare Casa Pueblo, un edificio molto particolare a pochi chilometri da Punta del Este, residenza-studio dell’artista Carlos Páez Vilaró. L’idea di vedere le opere di un pittore che non conoscevo mi tentava, ma più che altro desideravo allontanarmi dalla bolgia turistica: ci andai insieme a Colin (meraviglioso compagno di lavoro e di viaggio), gli altri rinunciarono. 


Proiezione delle fantasie del suo proprietario, che l’ha ideata e costruita pensando alla Grecia e sognando Gaudí, Casa Pueblo è un bizzarro oggetto architettonico: profili deformati, cupole, balconi che si affacciano sull’oceano, asimmetrie ossessive, assenza di linee rette e presenza ingombrante delle opere di Vilaró, che era pittore ma anche scultore, ceramista, fotografo, poeta… Di quell’esagerata esibizione narcisistica ho pochi ricordi, ma una targa all’ingresso di una delle tante sale del complesso mi aveva colpito: “A mio figlio Carlitos, sopravvissuto al disastro aereo delle Ande del 1972”. 

  

Il pilota è convinto di aver scavalcato il passo ma sbucando all’improvviso dalla nebbia si trova di fronte a una montagna invalicabile

  
All’interno veniva ricordato quel tragico evento con fotografie, articoli di giornali dell’epoca e un video che in loop ne raccontava i drammatici momenti. La storia è nota: in quel lontano ottobre dei primi anni 70, una squadra di giovani rugbisti uruguaiani si imbarca su un bimotore dell’aeronautica militare per raggiungere Santiago del Cile, in previsione di un incontro. A bordo salgono anche i tecnici della squadra, alcuni familiari e cinque membri dell’equipaggio: in tutto quarantacinque passeggeri. Le condizioni meteo non sono ideali per un volo che prevede una rotta notoriamente pericolosa come l’attraversamento delle Ande (due volte l’ho sorvolata la cordigliera, uno spettacolo grandioso e terrificante), e infatti, poco dopo il decollo, i piloti decidono per precauzione di fare uno scalo a Mendoza. A partire da questo momento entrano in gioco circostanze che molto hanno a che fare con l’irresponsabilità e poco col destino (che invece riguarda Gilberto Regules, giocatore della squadra, che per sua fortuna non si svegliò in tempo e arrivò troppo tardi all’aeroporto…). Nonostante la persistenza del maltempo, il bimotore è costretto a ripartire il giorno successivo perché i regolamenti aeronautici argentini vietano agli aerei militari di sostare più di ventiquattro ore sul territorio nazionale. Tornare a Montevideo sarebbe stata l’opzione più assennata, ma in tal caso l’aviazione militare si sarebbe accollata il rimborso dei biglietti, eventualità che le difficoltà finanziarie nelle quali versava rendevano improponibile (per questa ragione la Fuerza Aérea Uruguaya spesso noleggiava i propri aerei per voli charter a uso civile…). I piloti, messi sotto pressione, accettano di correre il rischio. Venerdì 13 ottobre 1972, il Fokker F 27 decolla per la seconda volta. A quattromila metri di altitudine, mentre sta sorvolando la cordigliera delle Ande, il pilota commette un errore di calcolo che sarà fatale: complice la scarsa visibilità, è convinto di aver scavalcato il passo oltre il quale iniziare la discesa ma sbucando dalla nebbia si ritrova all’improvviso di fronte a una montagna invalicabile. L’aereo precipita nel luogo più inospitale della terra. La coda, tranciata nello schianto, trascina con sé dodici passeggeri mentre la fusoliera arresta la sua corsa in una valle innevata, da allora tristemente nota come La valle de las lágrimas. I ventinove superstiti, fra i quali molti feriti (cinque di loro non riusciranno a superare la notte), si rifugiano nei resti della carlinga ridotta a un troncone di lamiera e tentano l’impossibile per sopravvivere in attesa dei soccorsi: recuperano i bagagli risparmiati dalla collisione in cerca di viveri e indumenti per proteggersi dal gelo, soccorrono i feriti, accudiscono i moribondi e pregano, pregano continuamente (in questa vicenda la fede ha un ruolo capitale), convinti che presto verranno a salvarli. 

  

Fernando Parrado è l’Ernest Shackleton di questa storia: con Roberto Canessa raggiunge a piedi il Cile, attraversando i picchi delle Ande

  
“La società della neve”, candidato agli imminenti Oscar, è forse il più efficace tra i film ispirati alla tragedia. Il titolo si riferisce alla straordinaria prova a cui viene sottoposto un gruppo di ragazzi giovanissimi, quasi tutti provenienti da famiglie facoltose e dunque abituati agli agi e impreparati alle emergenze, che una volta appreso (da una radiolina a transistor) che le ricerche dell’aereo precipitato erano state interrotte, non solo non perdono la speranza ma, al contrario, costituiscono una vera e propria società fondata su un unico, comune obiettivo: la sopravvivenza. “Tutto è cominciato quando abbiamo saputo che nessuno ci avrebbe soccorso: da quel momento abbiamo smesso di aspettare e abbiamo cominciato ad agire”, racconta in un’intervista commovente Fernando Parrado, protagonista di un’impresa che non ha precedenti. Vengono attribuiti i compiti: c’è chi si occupa di perlustrare il territorio cercando di recuperare tutto ciò che può essere utile, chi si incarica di ripulire la fusoliera e chi tenta di ripristinare un contatto radio attingendo ai propri studi di ingegneria. Gli studenti in medicina si prendono cura dei feriti e altri escogitano ingegnosi sistemi per convertire la neve in acqua da bere, riadattare i sedili in giacigli per i feriti, frazionare il poco cibo a disposizione (alcune tavolette di cioccolata, caramelle e snack acquistati all’aeroporto). “Le notti erano brutali, la temperatura scendeva a meno trenta, i vestiti si congelavano, i nostri denti battevano così forte che era impossibile parlare, passavamo il tempo contando i secondi fino all’arrivo del giorno, rannicchiati uno contro l’altro”. Non li fermerà il gelo e nemmeno il sopraggiungere di una valanga che travolgerà la carlinga seppellendola sotto la neve: ne moriranno otto, gli altri resisteranno quattro giorni intrappolati prima di riuscire a liberarsi.  E’ in quelle circostanze disperate che verrà presa la terribile decisione: “Non avevamo alternative, ne abbiamo discusso tutti insieme e insieme siamo arrivati alla conclusione che la vita era la cosa più importante… Abbiamo stretto un patto: rispettare i corpi delle donne e risparmiare, per quanto possibile, quelli dei parenti”, racconta Parrado, che sulle Ande ha visto morire la madre e la sorella. E aggiunge, schiacciato dal peso di quella decisione: “Chiunque, in quella situazione, avrebbe fatto lo stesso…”. 

  

  
Il tabù infranto diventa il fulcro di questa vicenda, il titolo sensazionalistico che infiammerà le prime pagine dei giornali di tutto il mondo riverberando sui sedici sopravvissuti una luce macabra che tuttora li perseguita. Nemmeno la pubblica assoluzione della Chiesa e la cristiana comprensione espressa dai familiari delle vittime sono bastate a liberarli da quel fardello. Negli anni a venire racconteranno che in ogni sguardo a loro rivolto lampeggiava la sinistra parola “antropofagia”… Occhi non giudicanti ma pieni di morbosa curiosità riguardo a quella scelta drammatica, considerata il punto di non ritorno della loro disperata avventura. 

  

Affascina il misterioso meccanismo che permette agli uomini di attingere a forze fin lì sconosciute, capaci di rovesciare il più scontato degli epiloghi

  
Sono sempre stata ossessionata dalle storie di sopravvivenza, forse perché mi riconciliano con gli esseri umani, ricordandomi quanto, a volte, siano capaci di exploit straordinari. Lo “straordinario” è la mia religione. Ad appassionarmi è naturalmente la cronaca degli avvenimenti, la testimonianza di chi per giorni, mesi, a volte anni si è trovato costretto a combattere contro l’indicibile e, attingendo a risorse fin lì sconosciute, è stato capace di rovesciare il più scontato degli epiloghi. Ma sopra ogni cosa, ad affascinarmi è il misterioso meccanismo che permette a quelle forze di rivelarsi, tanto più interessante se a dover scongiurare le avversità sia un gruppo di persone, fra le quali, talvolta, una soltanto assurge al ruolo di salvatore, tramutandosi, a pieno titolo, in un eroe. Fernando Parrado è l’Ernest Shackleton di questa storia, l’uomo che non soccombe di fronte all’insormontabile e si fa latore del proprio e dell’altrui destino. Come il grande esploratore irlandese, che per salvare i suoi uomini confinati su un gelido isolotto affrontò il più malvagio degli oceani a bordo di una scialuppa, e una volta toccata terra dovette scalare un ghiacciaio per raggiungere il primo luogo abitato, così Parrado, insieme al compagno Roberto Canessa, fu costretto a giocarsi l’ultima carta a disposizione: raggiungere il Cile a piedi, attraversando i picchi delle Ande. Senza attrezzature, senza cibo, senza bussola, e dopo oltre due mesi di vita in condizioni disperate, i due si avventurano in cerca di salvezza. A commento di questa impresa qualcuno dirà che l’ignoranza dei pericoli a cui andavano incontro ha permesso ai due ragazzi di andare avanti, se avessero avuto contezza dei rischi non avrebbero mai tentato. Io credo che l’esito positivo di questa tragedia si deve alla forza della loro giovinezza, all’intelligenza dimostrata nella gestione dell’emergenza e al potentissimo, cieco e irrazionale istinto di sopravvivenza. Senza alcuna enfasi e con la serenità che solo le grandi anime possiedono, Parrado attribuirà alle sue scelte un significato trascendentale: “Sono sopravvissuto allo schianto per aver ceduto, pochi istanti prima, il mio posto al mio amico Abal che voleva vedere il panorama, in seguito sono stato risparmiato dalla furia di una valanga… Questo faceva di me un predestinato: dovevo farcela a tutti i costi. Mi ha spinto il pensiero di mio padre, che sulle Ande credeva di aver perso la sua famiglia. Dovevo tornare da lui”.


Questa è una storia di figli, di figli perduti, ma anche di padri. 

  

L’artista Carlos Páez Vilaró si rivolge al noto veggente Gerard Croiset che gli rivela di aver “visto” l’aereo. Che però è impossibile da localizzare

  
Le cronache si sono naturalmente focalizzate su ciò che era avvenuto lassù, e pochi conoscono l’avventura parallela di chi ha vissuto quei terribili settantadue giorni nella costante pianificazione di un riscatto. Quando, dopo dieci giorni di ricerche (termine oltre il quale la speranza di trovare dei superstiti si ritiene inconsistente), i soccorsi ufficiali vengono sospesi, i familiari si rassegnano all’idea di aver perduto per sempre i loro cari. Fra loro c’è però un uomo che non si è mai arreso, un padre che ha dimostrato la stessa tenacia del figlio intrappolato tra le montagne, la medesima incrollabile certezza di riuscire a ingannare il destino. E’ Carlos Páez Vilaró, l’artista uruguaiano che ha costruito Casa Pueblo, il simbolo della sua vittoria. Appena saputa la notizia della scomparsa dell’aereo, Vilaró si precipita in Cile. Raggiunta la centrale che coordina i soccorsi, chiede con determinazione di partecipare alle ricerche e insieme ai piloti sorvola per giorni e giorni la cordigliera. Quando i soccorsi ufficiali si ritirano, Vilaró non demorde e prosegue le ricerche. Da solo. Comincia a battere la zona dei villaggi alle falde delle montagne, bussa alle porte chiedendo se qualcuno ha avvistato i detriti di un disastro aereo, poi noleggia un bimotore per sorvolare, a sue spese, i picchi delle Ande.

    

Fernando Parrado, al centro, nella foto a sinistra, dopo il suo arrivo. A destra, Carlos Paez si riunisce a suo padre (Foto Bettmann/Getty Images) 
   

Per sessanta giorni non si dà pace, lo chiamano “el loco”, il matto, credono abbia perso la ragione. Lui non molla, è convinto che suo figlio sia ancora vivo e non si dà per vinto. Le prova tutte, compreso il ricorso al soprannaturale. Si mette in contatto con Gerard Croiset, un noto veggente olandese che a migliaia di chilometri dal Sudamerica e senza aver conoscenza dei luoghi in cui si sono svolti i fatti, gli rivela di aver “visto” l’aereo sul quale viaggiava il figlio schiantarsi contro una montagna e spezzarsi in due, per poi scivolare lungo un pendio innevato… “Vedo vita e morte”, gli dice. “Impossibile intercettarlo dall’alto, il colore bianco del velivolo si confonde con la neve” (era per questa ragione che i mezzi di soccorso, pur avendo sorvolato la zona, non avevano avvistato il relitto). Il veggente fornisce altri impressionanti particolari: un cartello con la scritta “Peligro”, e l’indicazione del “Pico Picazo” come possibile zona del ritrovamento. Poi aggiunge che non lontano dal luogo del disastro si trova un “pueblo blanco”, un piccolo villaggio abitato da allevatori di bestiame. Spinto da quella premonizione (“c’è vita e morte”), nel giro di pochi giorni Vilaró organizza una spedizione sulle montagne accompagnato da un gruppo di volontari. Sul cammino si imbatte in un villaggio che porta effettivamente il nome di Blanco, poi prosegue l’ascesa verso il Pico Picazo che si rivelerà, a posteriori, non lontano dal luogo del disastro… Non sappiamo se la fede cieca di Vilaró lo avrebbe infine condotto nella valle delle lacrime, in ogni caso la sua struggente perseveranza viene premiata due giorni prima di Natale, quando giunge la notizia che non a torto verrà definita “el milagro”: due sopravvissuti sono stati avvistati sulla riva di un fiume da un mandriano. “Chi sono?”, chiede Vilaró, “ditemi i loro nomi!”. I ragazzi, come sappiamo, si chiamano Fernando Parrado e Roberto Canessa, ma altri quattordici nominativi figurano sulla lista fornita dai due, e fra questi c’è anche Carlitos, il più giovane del gruppo, che per settantadue notti ha guardato la luna pensando a suo padre. “Ero un ragazzo di diciotto anni, figlio di un pittore che non ci ha mai fatto mancare niente. Avevo ancora la tata, era stata lei a prepararmi la valigia per il viaggio. Non avevo mai avuto freddo. Non avevo mai avuto fame. Non avevo mai fatto nulla di utile. E ho vissuto la più incredibile storia di sopravvivenza di tutti i tempi”.

  

I protagonisti ormai adulti rievocano i momenti più difficili, ma anche quelli in cui la leggerezza della loro giovane età riusciva comunque a emergere

  
Oggi Carlitos di anni ne ha settanta. Nel film candidato agli Oscar ha interpretato in un cameo suo padre, a lui il compito di scandire, uno a uno, i nomi dei compagni che ce l’avevano fatta, la lista dei sedici miracolati. Il legame di amicizia e fratellanza, che fu decisivo per la loro sorte, non si è mai dissolto. Trent’anni dopo la tragedia, sono tornati, insieme, sulle Ande, per girare un documentario nel quale raccontano la loro esperienza. Si intitola “Vengo de un avión que cayó en las montañas. Soy uruguayo”,  a ricordo della frase scritta da Fernando Parrado sul foglio di carta avvolto attorno a un sasso e scagliato oltre il fiume, in direzione del mandriano che li aveva avvistati. Fra le tante interviste disponibili sul web, le testimonianze raccolte in questo lungo documentario sono le più toccanti: i protagonisti ormai adulti si ritrovano nel luogo infernale che ha cambiato per sempre la loro vita, e guardandosi intorno rievocano i momenti più difficili, ma anche quelli in cui la leggerezza della loro giovane età riusciva comunque a emergere. Roberto Canessa, con gli occhi rivolti alla maestosità del panorama, si lascia andare a un ricordo: “Fra le tante riflessioni ricordo di aver pensato quanto fosse straordinario essere finiti in questo luogo inaccessibile, un luogo che nessuno, prima di noi, aveva esplorato. Un fatto unico, come unico è stato tutto quello che abbiamo vissuto”.


Di nuovo mi torna in mente la grandiosa impresa di Ernest Shackleton pensando alla quale due circostanze mi appaiono straordinariamente speculari. Una solenne, l’altra in apparenza minima, ma altrettanto commovente. 

   

Da una radiolina i sopravvissuti scoprono che le ricerche si sono interrotte: “Abbiamo smesso di aspettare e cominciato ad agire”

   
Dopo aver raggiunto la salvezza, Shackleton conserva le poche forze rimaste per tornare a salvare i suoi uomini, abbandonati sull’isola. Lo stesso fa Fernando Parrado, che subito dopo essere stato soccorso, sale su un elicottero per indicare ai piloti come raggiungere i compagni rimasti sulla montagna. Nell’approssimarsi alla stazione di balenieri, coi capelli lunghi fino alle spalle, le barbe sporche e i vestiti laceri, Worsley, l’uomo che si era unito a Shackleton nella folle impresa, ebbe un sussulto di buona creanza: si frugò nelle tasche e ne estrasse due spille da balia arrugginite che utilizzò per rabberciare gli strappi dei pantaloni. Mossi dallo stesso istinto, quando appresero dalla radiolina la notizia che Fernando e Roberto ce l’avevano fatta, i ragazzi trovarono il modo di apparire più presentabili per l’arrivo dei soccorsi: si pettinarono i capelli e si lavarono il viso con la neve, recuperando il giusto contegno per il loro rientro nella società umana. Il furioso istinto di sopravvivenza non li aveva tramutati in selvaggi.