Yusuke Harada/NurPhoto via Getty Images 

Amare sì il Giappone, ma nella sua versione soporifera e rassicurante

Raffaella Silvestri

Nel Giappone ritroviamo una stuzzicante resistenza all’occidentalizzazione, senza la carica aggressiva e ostile che porta con sé, per esempio, la Cina. Scartiamo la violenza e ne isoliamo la delicatezza, una caratteristica che inventiamo basandoci sulle buone maniere e l’estenuante etichetta che regola i rapporti fra persone

Quando arriva una tempesta nipponica io cerco di stare immobile e aspettare che passi. Le tempeste nipponiche sono quei periodi in cui va di moda il Giappone, e tutti i prodotti culturali che lo raccontano a noi occidentali – prodotti intrinsecamente feticisti, perché del Giappone prendono una parte e la assolutizzano per metterla al servizio di un nostro bisogno. Oggi il bisogno è un piacevole ottundimento: la piccola libreria, il gatto, il caffè, il konbini, i cessi. La distanza e l’oggettificazione sono imprescindibili per la riuscita di quest’operazione; a noi europei, conquistatori nell’anima, attira l’alterità, ma nel mondo globalizzato è quasi impossibile trovarla davvero. Raro trovare un posto veramente esotico, e cioè – secondo un concetto eurocentrico e coloniale – non contaminato dal nostro sguardo. Nel Giappone ritroviamo questa stuzzicante resistenza all’occidentalizzazione, senza la carica aggressiva e ostile che porta con sé, per esempio, la Cina, che ci fa pensare all’ordine geopolitico alla minaccia militare a Taiwan all’economia. Del Giappone isoliamo la delicatezza, una caratteristica che inventiamo basandoci sulle buone maniere e l’estenuante etichetta che regola i rapporti fra persone (inchini, biglietti da visita ricevuti rigorosamente con entrambe le mani, altri inchini) mista ai fiori di ciliegio. Scartiamo la violenza, che pure è ben presente già nei romanzi “giapponesi” di Amelie Nothomb, come Stupore e tremori (1999), che racconta l’esperienza dell’autrice in un’azienda giapponese, basata su umiliazioni di ogni tipo, perlopiù idiote (il capo che le fa rifare le stesse fotocopie ogni giorno) e ipocrisie, tradimenti e abusi crudeli ma altrettanto ottusi e privi di mistero (gelosie, maschilismo). La retrocessione della protagonista culmina nella posizione di guardiana dei cessi. L’elemento ricorre in “Perfect Days”, il film di Wim Wenders che racconta le giornate di un addetto alla pulizia di alcuni bagni pubblici a Tokyo (The Tokyo Toilet, micro architetture progettate da archistar) con enfasi sulla parte poetica di questi giorni: il cielo, le musicassette, il tempo libero, tra libri e tavole calde. Su TikTok: #romanticizeyourlife, per apprezzare le cose semplici. 

 
Ryūsuke Hamaguchi, regista di “Drive my car”, che nel 2022 ha vinto il premio Oscar per miglior film internazionale, riesce a integrare nel proprio lavoro entrambe le spinte. Ne “Il male non esiste” (2023) lascia più spazio all’elemento inquietante di questi rapporti in apparenza contenuti che ribollono di minacce, sfogate nelle ultime scene. Risulta un film per noi difficilmente comprensibile (nelle parole del Guardian: quirky).

 
Buonanotte Tokyo, di Yoshida Atsuhiro
e pubblicato da E/o, viene presentato come romanzo allegro e leggero. È vero che è un libro in cui i protagonisti cercano quietamente un amore perduto; un libro in cui non mancano le cianfrusaglie (elemento essenziale nei feel good): uno schiaccia-noccioline, il negozio del rigattiere aperto di notte. Le nespole. L’ambientazione notturna e la scrittura però aggiungono un elemento di profondità alla narrazione, in cui si coglie quel piacevole senso di lontananza che rallenta e rilassa, ma non banalizza – l’autore, del 1962 con alle spalle una vasta produzione, riesce a creare un mondo che non nega del tutto la scomodità.

 
Perché ci piace il Giappone? Perché, in questa versione soporifera e rassicurante, l’abbiamo inventato noi. Noi WEIRD (Western, Educated, Industrialized, Rich e Democratic), che siamo solo il 12 per cento della popolazione mondiale, e cerchiamo amici (non troppo) diversi.

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