(foto Olycom)

Il Foglio Weekend

Truman Capote e i suoi cigni sempre a dieta

Michele Masneri

L'attesa seconda stagione della serie FX "Feud" sull'alta società newyorchese, frequentata dal grande scrittore americano

Insomma, cosa c’è e cosa non c’è in questa attesissima seconda “Feud”, serie americana antologica che stavolta ci diletta sulla nota questione “Cigni di Truman Capote”, già sviscerata in mille opere di ingegno ma sempre di assoluto interesse e appeal, almeno come il fascismo, letterario e televisivo, declinato in mille rivoli nei palinsesti italiani? In questa nuova stagione voluta dall’antropologo  dell’effimero  Ryan Murphy e con regia di Gus Van Sant, in onda su FX in America (da noi non si capisce dove, nello strano mondo delle piattaforme per cui qua la produce uno e là la distribuisce un altro, mondi che non si incontrano quasi mai) ecco dunque questi cigni favolosi, le gran dame di Truman Capote (interpretato da Tom Hollander) che nella vita lo ospitavano e sfamavano e nella letteratura furono “exposed” brutalmente nell’infame capitolo 3 delle “Preghiere esaudite” (il romanzo celebre mai finito e pubblicato a puntate su Esquire che portò al bando sociale dello scrittore, al suo crescente alcolismo, e infine alla morte, ma questo è noto).

 

Cosa si vede, dunque? Intanto cosa si perde: si perde un po’ la grandezza, la tridimensionalità di queste dame favolose, qui nella serie intente a volersi bene e ad autosostenersi in una specie di femminismo post-prodotto che stona. E certo confrontarsi con personaggi “larger than life” non dev’essere stato facile, anche con un primario cast, con Naomi Watts che fa  Babe Paley, moglie del magnate della Cbs Bill e cigno più devastato dal tradimento di Capote, che parallelamente a lui agonizza tra chemioterapie senza mai perdonarlo; e poi Chloë Sevigny che fa la più magnanima CZ Guest e Diane Lane che interpreta la più arrabbiata, Slim Keith già signora Howard Hawks poi Leland Hayward, e infine Kenneth Keith con titolo di lady (seguendo forse l’antico detto che ci si sposa la prima volta per amore, la seconda per denaro, la terza per il titolo). Poi Calista Flockhart  che è Lee Radziwill sorella sfortunata e gelosissima di Jackie Kennedy (pronuncia: ragìvil, aveva sposato uno spiantato principe émigré polacco, e alcuni parenti non si presentarono alle nozze con la first sorella del mondo libero perché consideravano quel matrimonio americano una cafonata). Manca soprattutto Lady Ina Coolbirth, ventriloqua dell’alta società che nel romanzo convoca Capote al ristorante. Il personaggio di Coolbirth era un mix tra Slim Keith e Pamela Harriman, nuora di Churchill e grande amore giovanile di Gianni Agnelli e infine ambasciatrice americana a Parigi, quella per cui Agnelli si maciullò la famosa gamba in Costa Azzurra, quella che era pronta a divorziare dal giovane Churchill per sposare l’Avvocato, ma le sorelle si opposero (troppo americana, troppi uomini, troppo scaltra: send in donna Marella).

 


Questi che si vedono sullo schermo non sono del resto i cigni (così lui chiamava le sue muse) che stanno nel libro di Capote (dove a narrare la storia è appunto lady Coolbirth e le altre hanno nomi di fantasia, anche se facilmente riconoscibili); sono invece le vere amiche di Capote in carne e Chanel, protagoniste di un  “Capote’s Women: A True Story of Love, Betrayal, and a Swan Song for an Era” di Laurence Leamer. Come che sia, questi cigni furono molto maltrattati.  E però queste signore messe lì tutte insieme sembranoo una versione deluxe delle americane dei vari “Mad Men”, anche come mentalità, tutte molto preoccupate di far sempre la cosa giusta e il thanksgiving giusto, e le ricettine giuste per i nipotini e poi volersi bene. Mah. Anche i ristoranti, set del racconto e del capitolo che si chiama appunto come uno dei più celebri, “La Côte basque”, sono un po’ anonimi. Ci si sarebbe aspettati di vedere lo chef, il celebre monsieur Soulé, già al Colony, il progenitore di questi avamposti culinari per classi alte. The Colony nacque negli anni Venti e fu il primo ristorante a New York ad avere l’aria condizionata, il primo a importare il Dom Perignon, il primo ad essere frequentato dalle signore che al debutto del secolo cominciarono ad andare a pranzo o a colazione insomma al lunch, da sole, senza uomini. Nasce proprio il verbo, “lunching”, non si sa chi l’avesse inventato, forse  John Fairchild, editore del Women’s Wear Daily. E poi c’erano i Gentlemen Who Lunched with the Ladies Who Lunch, dei quali molti erano gay e molti avevano qualcosa da vendere, ha ricordato Bob Colacello in un vecchio articolo sul Vanity Fair americano.  Queste donne che almeno a tavola avevano generato un femminismo capitalistico, improvvisamente diventano prede ambite dei ristoratori ma anche dei paparazzi. Erano femmine di potere che non volevano assolutamente essere fotografate, e dunque tutti volevano farlo. E questi ristoranti erano perfetti come set e sfondo; The Colony, La Grenouille, La Côte Basque… Lì niente dipendeva dal cibo e tutto dipendeva dalle luci, e si narra che alla Grenouille, quando un certo tipo di lampadina finì fuori produzione, il proprietario fece in modo di accaparrarsene una scorta dalla General Electric. “Tutti hanno un aspetto divino a La Grenouille,” disse Carolina Herrera, “e tutti possono vedere tutti grazie alla forma della stanza” . “La Côte Basque”,  racconta Capote in "Preghiere esaudite", “comprendeva un piccolo atrio, un bar sulla sinistra e in fondo, passato un arco, una grande sala da pranzo felpata di rosso. Il bar e la sala principale costituivano una sorta di Ebridi Esterne, un Elba dove Soulé esiliava gli avventori di serie B. I clienti preferiti, selezionati dal proprietario con infallibile snobismo, venivano fatti accomodare nell’atrio bordato di divanetti - come è d’uso in tutti i ristoranti di New York. Questi tavoli, sempre i più vicini alla porta, sono pieni di correnti, permettono ben poca privacy, ma sedersi o no a uno di essi è il momento della verità per qualsiasi cittadino che tenga al proprio prestigio. A lady Ina ovviamente era stata assegnata una postazione inappuntabile – il quarto tavolo a sinistra rispetto all’ingresso. Ve l’accompagnò monsieur Soulé in persona agitato come sempre, e roseo e lucido come un porcellino di marzapane”. Il porcellino di marzapane qui suda ancora di più quando lady Ina gli chiede un piatto speciale, il famoso soufflé Fürstenberg, difficilissmo a farsi e lentissimo, dunque perfetto per lasciar scorrere lo champagne e le chiacchiere (in questo caso, 30 pagine sulla storia di Ann Hopkins, la prostituta diventata socialite e infine assassina del marito, storia che quando diverrà pubblica porterà al suicidio dell’interessata, punto finale di caduta del capotismo. Lei pare sarà interpretata da Demi Moore nelle prossime puntate. 

 

Il soufflé per la cucina è “un trambusto”. Scrive Capote: “Squisito però: una schiuma di formaggio e spinaci in cui sono state immerse strategicamente delle uova in camicia, col risultato che, quando infili la forchetta, il soufflé è inumidito da fiumi dorati di tuorlo d’uovo”. Tra l’altro un giorno bisognerà studiare l’influenza della famiglia tedesca sul pop del ventesimo secolo (risuona l’immortale vanziniano “A Capodanno siamo dai Fürstenberg”). Però non illudiamoci: queste signore non erano lì per mangiare: non erano ancora anni di km zero e “territorio” significava ettari di parco, c’erano cose molto più interessanti da fare e di cui parlare che non il cibo, e ai ristoranti (soprattutto al lunch) si andava per bere e per farsi vedere (“e non certo per questa fottuta salade niçoise”, dice un cigno nella serie). In quel periodo vanno di moda  anzi “la dieta del formaggio svizzero” e un beverone chiamato “Metrecal”, che permette di sostituire i pasti. Babe Paley poi andava per dimagrire da Joseph Pilates in persona. Nei ristoranti di quel tipo poi non c’era  musica, perché la musica è il gossip che si spande di tavolo in tavolo. Le pr erano fatte da personaggi come Lanfranco Rasponi (giornalista, viveur, autore di un interessante libro, “I nomadi internazionali”). Era un mondo in cui poi nessuno andava a casa a fare le recensioni su TripAdvisor, evidentemente.


Ma il romanzo ha un impatto perfino sulla ristorazione.  Secondo Colacello l’uscita di “La Côte basque”,  il capitolo incriminato del libro di Capote che esce nel ‘75 su Esquire, non portò solo alla sua rovina sociale ma anche alla fine dei ristoranti “francesi” a New York e all’inizio dell’ascesa di quelli italiani (dunque, ancora una volta, grazie Truman). Partono così il Quo Vadis, Orsini’s e Le Cirque (dal nome francese ma dell’italianissmo Sirio Maccioni). Locali più caldi e meno sofisticati, mentre incombono già gli anni Ottanta e la Diet Coke.

 

Nella serie manca anche Marella Agnelli,  e non che fosse un cigno secondario, c’è tutta una letteratura di Capote in barca con gli Agnelli in Spagna e in Grecia, ma lei forse era stata italianamente più astuta, o forse Capote o le successive biografie ritenevano che pettegolezzi tutto sommato regionali fossero meno interessanti. Lui scriveva su Vogue lunghi reportage su Torino, la servitù perfetta e i citofoni e gli interfoni, e in crociera con loro si portava sempre dietro quel Jack Dumphy fidanzato che nella pellicola è impersonato dal Rossel Tovey di “Looking” impegnato a  menarlo praticamente h24. Personaggio a detta di tutti poco interessante, né sofisticato né trucido abbastanza. Ma qualche anno fa del romanzo incompiuto è stato ritrovato un capitolo intitolato “Yachts and Things” che conteneva delle storie vagamente agnellesche. Cose di barche…

 

In quelle crociere e vacanze c’era qualche volta anche Alberto Arbasino, che detestava Capote. Lo descriveva come piccolo, tondo, di volta in volta spiaggiato su qualche bagnasciuga (avvistato anche  da Egon, di nuovo un Fürstenberg) e sempre ubriaco. E dopo il successo clamoroso di “A sangue freddo” Capote fece un viaggio in Italia insieme alla moglie dello sceriffo che aveva coadiuvato le indagini per il libro: i due erano subito stati sottoposti a ludibrio: soprannominati “the trummy and mommy horror show”, perché cheap e trash e attovagliati (diceva AA) nei posti più turistici, taverne e trattorie con gladiatori e fiaschi (la sceriffa non era mai stata in Italia).  Altri scherzi, raccontava sempre l’illustre vogherese, riguardavano l’autore solo, quando gli si telefonava annunciando “presto, c’è donna Marella al telefono”, e lui correva all’apparecchio, ma quelli lasciavano regolarmente giù. C’era probabilmente una grande gelosia giustificata dai successi planetari di Capote (star globale riconosciuta per strada, anche per le famose risse televisive). Arbasino sulle stesse annate di Vogue America scriveva invece ponderosi pezzi sulle donne in D’Annunzio, dunque “nicchia”. Ma soprattutto non si capacitava di come  Capote avesse compiuto il suicidio sociale: raccontare i misfatti delle classi alte con tutti i nomi veri o quasi dentro. Con immediata riprovazione e messa al bando mondana e dunque alcolismo finale e fatale. Arbasino mirava e brigava pure lui alla sua Recherche (e il suo “Fratelli d’Italia” è il “Preghiere esaudite” italiano) – però con molte accortezze, cambiando almeno i nomi, invertendo più efficacemente delle principesse con delle contesse, e poi non ci sono delitti dentro, non c’è una Ann Hopkins, solo un suicidio amaro finale. Se il libro di Capote è rimasto di 3 capitoli, quello di Arbasino si è espanso nelle varie riscritture oltre le 1400 pagine Adelphi.
Cambia anche il tipo di humor, del resto “Fratelli d’Italia” è pura commedia all’italiana, siamo negli anni del “Sorpasso”, gli stessi in cui Risi fa “Il vedovo”, e lì ecco un delitto di alta borghesia che finisce in farsa, con un ascensore malfunzionante, forse gran metafora dell’ascensore sociale mai partito in Italia (e Sordi “cretinetti” col suo visone che regala e poi toglie all’amante sarà più o meno interessante del Bill Paley che fa sesso con la sua mistress facendosi cogliere sul fatto mentre ripulisce le lenzuola?). Comunque in Arbasino niente “linea crime”, direbbero gli sceneggiatori, e gossip meglio dissimulati, e forse anche una maggior spiritosità delle classi alte italiane, così quando uscì il romanzo ci fu qualche scandaletto e mugugno soprattutto nei salotti letterari (Visconti e Moravia) ma non dannazioni mondane, anzi, il romanzo e lo scrittore furono per anni festeggiati tra le  Ninni Pallavicini e le Inge Feltrinelli, insomma le Guermantes e le  Kay Graham romane-milanesi. 

 

Ci sono poi “pezzi” di società intercambiabili in entrambi i romanzi, da Margaret d’Inghilterra sempre in crisi a Roma ospite sull’Isola Tiberina dai Montagu (e invece in Capote, dopo una battuta omofoba tipo “non le sopporto, le checche”, uno dei cigni le risponde: “allora avrà una vecchiaia molto solitaria, Altezza”, profetica). Poi Fulco di Verdura, ducale gioiellere palermitano a New York e punta (è il caso di dirlo) di diamante dei Gentlemen Who Lunched with the Ladies Who Lunch, si vede nella serie americana solo tramite i suoi gioielli ambitissimi, mentre Arbasino raccontava sempre della sua morte, investito da un taxi a Manhattan, e quando il poliziotto intervenuto gracchia nella radiolina: “investito passante nella tal via, età apparente settanta” lui da moribondo a terra precisava: “sessantotto!” subito prima di spirare. Poi, dopo, le ceneri vennero portate in Italia da un suo vedovo, e alla dogana richiesto di chiedere cosa contenesse il vaso, il vedovo rispose: “ashes”, ceneri, il finanziere capì hascisc e ci furono molti disguidi. E se in “Preghiere esaudite” c’è tutta una storia di un celebre prostituto internazionale poi sepolto al cimitero Acattolico di Roma, già amante tra gli altri di Re Paolo di Grecia, su Re Umberto Arbasino raccontava (anche oralmente) che di fronte alle missioni scalcagnate di revanscisti che nell’esilio di Cascais gli proponevano improbabili ritorni sul trono, Sua Maestà si informava piuttosto di certi design e arredamenti di  dame romane (insomma, altri cigni, però, l’abbiamo capito, un “Feud” italiano non si può fare, così come non si può fare un “The Crown”, da noi finisce e sbraca sempre tutto in commedia). Di scrittori rovinati perché estromessi poi dalla gran borghesia e aristocrazia in Italia non se ne son mai visti, né creerebbero scandalo: molto più eccitanti le estromissioni dalla Rai o  dal cda dei teatri di Roma. 

 

Rimane la domanda: ma perché l’ha fatto, Capote si intende? La pellicola per forza di cose deve semplificare, e nell’ennesima nebbia alcolica di lui appare il fantasma di mammà, interpretata da Jessica Lange, e dunque tutto sarebbe accaduto perché la mammà dall’alta società era stata esclusa, e dunque il figlio si sarebbe prima infiltrato e poi avrebbe svergognato tutti per vendicarla. Mah. Comunque si prova tanta solidarietà per il Capote che non ha mai pace tra tutti i suoi esigentissimi cigni che non fanno che programmare pranzi anzi lunch e cene. “Cosa credevano?Che fossi lì solo per divertirli?” aveva scritto programmaticamente lui. Perché chi ha mai provato un po’ di Guermantes anche di quarta sa quanta fatica costa il consolare, intrattenere, titillare, telefonare, smessaggiare, dei cigni anche non di New York ma solo dell’Appia Antica o Porta Venezia (o del Pigneto) e ascoltare i loro mariti, e ridere alle  battute, andare nelle case magari ampie ma fredde d’inverno e calde d’estate ed essere sempre brillanti e tenere conversazioni di ore e mangiare non sempre soufflé Fürstenberg, ma anche tante mozzarelle e puntarelle e pomodori al riso, magari in piedi, e il giorno dopo dovendo inviare magari anche dei fiori. E alla fine neanche la soddisfazione di un capolavoro:  solo glicemie e colesteroli altissimi.

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  • Michele Masneri
  • Michele Masneri (1974) è nato a Brescia e vive prevalentemente a Roma. Scrive di cultura, design e altro sul Foglio. I suoi ultimi libri sono “Steve Jobs non abita più qui”, una raccolta di reportage dalla Silicon Valley e dalla California nell’èra Trump (Adelphi, 2020) e il saggio-biografia “Stile Alberto”, attorno alla figura di Alberto Arbasino, per Quodlibet (2021).